25 anni di CODICE DI PROCEDURA PENALE: riflessioni sparse di un giudice e di un avvocato
Carlo Citterio – Pietro Someda
Pubblichiamo le riflessioni di un giudice e di un avvocato, esposte in parte in un bel convegno patavino sui 25 anni del codice di procedura penale vigente, organizzato dall’ANF. Sono ricche di spunti per la discussione, che nascono dalla pluriennale esperienza sul campo: una esperienza che non si accontenta di ‘adattarsi a come vanno le cose’ ma vuole essere fonte di domande sul ‘perché alcune cose vanno ed altre no’. Anche con autocritica sui rispettivi ruoli, indispensabile per un’analisi efficace e serena, ma soprattutto con molta passione per la funzione Giustizia che le nostre professioni devono servire.
Sono tratte dalla Rivista Giustizia Insieme.
il giudice
1. Quella notte a Verona.
Era convinzione comune che la settimana prima della prevista entrata in vigore sarebbe intervenuta quella che era considerata l’indispensabile, scontata quindi, proroga. I giorni correvano e nulla però accadeva. La notte precedente il 24 ottobre 1989, o quella immediatamente prima, si finì con l’attendere gli automezzi che avrebbero portato tutto il materiale cartaceo ministeriale necessario per proseguire il lavoro secondo le nuove regole. Si partiva altrimenti dal nulla, in un contesto dove tutto era carta. La mattina del giorno di formale entrata in vigore del nuovo codice la Procura della Repubblica presso la pretura circondariale iniziò l’attività di ricezione delle ‘notizie di reato’ (non più i ‘rapporti giudiziari’) nell’anticamera delle aule di udienza della Pretura penale: un foglio volante manoscritto avvisava che quello era un ufficio della nuova ‘Procurina’: tra le persone interessate alla trattazione dei processi del giorno si collocarono così alcune/i volenterose/i, personale di segreteria e magistrati, cercando di supplire al vuoto con la propria volontà e con la fantasia individuale, valorizzando al massimo le risorse mentali affinate dall’acquisita consuetudine ad organizzarsi per la sopravvivenza (che caratterizza il nostro lavoro giudiziario e giurisdizionale, per la cronica mancanza di alcun autentico interesse della politica, anche istituzionale – Legislatore ed Esecutivo –, a rendere efficiente ed efficace il lavoro di giustizia: davvero la Politica vuole un processo giusto in tempi ragionevoli con la legge uguale per tutti?).
Quel giorno ho finalmente compreso una cosa: il significato del termine normativo ‘vilipendio’: tenere a vile, disprezzare, si legge nei manuali; concetti astratti fino a quel momento. Ma ecco, quei giorni, quei silenzi istituzionali, quei ritardi, quell’improvvisazione, quell’affidarsi di fatto alle estemporanee iniziative dei singoli (nota bene: non per valorizzarle ma per disinteresse), quelle modalità di inizio dei lavori della ‘Procurina’, erano oggettivamente ‘vilipendio’ della Giustizia e della funzione giudiziaria.
Dopo qualche tempo, con l’esperienza nel frattempo vissuta (straordinaria: la partecipazione diretta alla concretizzazione di un nuovo codice, quando tra la norma positiva astratta e la sua applicazione non c’è altra mediazione che la ‘tua’ interpretazione, che concorre a dar corpo a quella nuova norma, perché manca alcun precedente, tantomeno autorevole!) ho compreso che le cose complesse presentano sempre aspetti non riconducibili a schemi lineari, a ragionamenti semplificati. Così, a volte è necessaria anche la scelta apparentemente ‘al buio’. Mi sono infatti convinto che se non si fosse comunque partiti, oggi saremmo ancora qui di proroga in proroga a lamentarci di risorse inadeguate e modifiche al testo necessarie per poter ‘partire’. Applicando nel frattempo il codice Rocco. Ci lamentiamo sempre, a ragione per lo più, di risorse inadeguate e modifiche normative necessarie, ma certamente le idee della parità delle parti processuali e del valore essenziale del contraddittorio nella formazione della prova sono ormai patrimonio comune di ciascun operatore, anche se discutiamo di come renderle davvero efficaci nella concreta trattazione dei procedimenti.
2. Dal ‘pretore-mostro’ (che istruiva, rinviava a giudizio, processava) siamo arrivati alla a volte esasperata ricerca delle ragioni di incompatibilità del singolo magistrato in conseguenza di atti compiuti per ragioni di ufficio nel medesimo procedimento. Anacronistico quel ruolo ‘mostruoso’ (che ha avuto un’efficacia peculiare nella sensibilizzazione della rilevanza sociale delle condotte in violazione delle norme di tutela dei beni ambiente, salute, lavoro; in sei mesi coloro che proseguivano nella consumazione di tali comportamenti potevano ritrovarsi con le sospensioni condizionali bruciate: giudizio, condanna, accertamento prosecuzione attività, giudizio, condanna), tuttavia mi ha sempre colpito il pensiero che, quando regnava il ‘mostro’, era patrimonio comune la netta differenza tra prove sufficienti per il rinvio a giudizio e prove necessarie per la condanna, sicché il numero di assoluzioni dibattimentali cui il ‘mostro’ perveniva (dopo aver lui stesso emesso il decreto di citazione a giudizio) era assai elevato, perché si trattava di un processo dove, il più delle volte e per la gran parte dei reati, l’approfondimento probatorio in realtà avveniva proprio al dibattimento.
Oggi, pare a volte che il giudice che ‘pensa’ prima del momento della sentenza divenga per ciò solo incompatibile a qualunque decisione.
Perdita nel tempo di autorevolezza della funzione, o inevitabile e coerente sviluppo culturale del mutamento delle premesse? (o entrambe?).
3. Siamo passati quindi dalla (spesso) sola discussione dibattimentale delle prove raccolte da pubblico ministero e giudice istruttore al tendenziale pieno contraddittorio già nell’acquisizione della prova.
Il sistema attuale (rafforzato nelle sue previsioni originarie di legge ordinaria dalla successiva modifica dell’art. 111 Cost.) ruota intorno ai presupposti della parità delle parti, del giudice terzo e imparziale, di oralità e concentrazione come connotati essenziali di tale acquisizione (fidando sulla regola di esperienza che in esito al confronto di prospettive, intrinseco al contraddittorio, la qualità della decisione sia necessariamente migliore).
La centralità del contraddittorio (sulle prove, sull’imputazione, sulle questioni logiche e giuridiche pertinenti alla decisione) presuppone parti informate e professionalmente preparate. La non infrequente inadeguatezza delle parti alla trattazione dello specifico processo è la vera mina vagante del processo attuale. Con parti adeguate ai rispettivi ruoli, il giudice esalta gli aspetti di terzietà e qualità del proprio lavoro di udienza.
3.1 Il codice attribuisce alle parti processuali la possibilità di distaccarsi dal modello ordinario di pieno contraddittorio nella direzione di riti alternativi che, ‘in cambio’ dell’attribuzione di rilievo probante agli atti raccolti dal pubblico ministero, riconosce miglior trattamento sanzionatorio.
Economie della struttura in rapporto diretto con l’entità della sanzione.
Il ‘rito’ entra nel ‘merito’ (e confonde quelli che prima erano ambiti nettamente distinti e in punto sanzione quasi stravolge il tradizionale ordine, del rito solo ‘servente’ l’applicazione della legge penale sostanziale).
Di più: con i riti alternativi, per definizione la pena applicata è pena ‘ingiusta’.
A quella infatti che sarebbe appropriata applicando correttamente i criteri indicati dall’art. 133 c.p. va tolta una parte consistente (anche un terzo). Significativa l’esperienza nelle corti d’assise, dove i componenti ‘laici’ dei collegi sono inizialmente portati al confronto immediato con la pena applicata in concreto, dopo la riduzione del terzo per il rito, ma poi comprendono che la loro corresponsabilità è (solo) per la determinazione della pena base, la successiva riduzione essendo responsabilità e scelta del legislatore. Ma tuttora è purtroppo non rara la distorsione anche nella magistratura professionale, quando il giudice che procede con rito abbreviato tenda a indicare una pena base spropositata (che lui per primo mai applicherebbe in esito al giudizio dibattimentale per quello stesso reato) solo per vanificare di fatto la regola della riduzione secca del terzo per il rito alternativo.
L’idea di una pena ‘legale’ (perché applicata in adesione a specifiche previsioni normative) e al tempo stesso per definizione ‘ingiusta’ (rispetto ai parametri della legge sostanziale che soli la disciplinano) spiazza le ricostruzioni sistematiche e introduce elementi di turbamento, non solo non risolti ma che si espandono.
La sentenza di patteggiamento riconosce o no la sussistenza di responsabilità, almeno ai fini penali? (sarebbe mai possibile, costituzionalmente compatibile, un’applicazione di sanzione penale nel limbo dell’incertezza della colpevolezza?).
3.2 Non risultano superate le originarie contraddizioni.
3.2.1 Processo di primo grado che esalta e presuppone oralità e concentrazione (ma senza l’obbligo normativo espresso, per la parte, di citare il proprio teste ammesso, senza ragione alcuna lasciando alla giurisprudenza, tormentata sul punto, il compito di trovare rimedi alla eventualmente anche maliziosa inerzia); epperò appello cartolare a cognizione piena (l’effetto dell’oralità sulla deliberazione di primo grado come ‘entra’ nella carta dei verbali?).
3.2.2 Una struttura codicistica destinata tendenzialmente a trattare un reato per processo, che quindi ‘soffre’, quasi perdendo la strada, nella trattazione congiunta di più reati con più imputati (ma qui rilevano anche strategie processuali non sempre opportune della parte pubblica); significativa la diffusa invidia verso i giudici che si occupano della corte d’assise: un’udienza un processo, il sogno di tutti i magistrati.
3.2.3 La ‘fisiologica patologia’ di più riti contemporanei per più imputati del medesimo fatto reato.
Il che vuol dire: un reato, tre imputati, tre riti diversi – uno patteggia, uno chiede l’abbreviato, il terzo va al dibattimento – .
Quindi, diverse le regole probatorie, diverso il materiale probatorio utilizzabile per la decisione, diversi i giudici che deliberano: il contrasto, o anche la sola incongruenza, dei relativi giudicati è evitato solo da miracoli occasionali.
L’incidenza reciproca del diverso materiale probatorio e dei giudicati contrastanti, anche in punto pena, così ottenuti, è tema tuttora non adeguatamente approfondito.
E, rimanendo all’esempio, otto magistrati per il patteggiamento (due in primo grado, sei in cassazione), dodici per l’abbreviato (due, quattro in appello, sei in cassazione), da dodici a quattordici per chi ha scelto il dibattimento (due/quattro, quattro, sei; sempre comprendendo i pubblici ministeri d’udienza): quindi, per il regime delle incompatibilità, da trentadue (32) a trentaquattro (34) magistrati per definire la posizione di tre coimputati di un unico reato che hanno scelto riti differenti…
Ora, la riflessione che si impone deve muovere da questa domanda: guardando ai principi costituzionali in materia di giustizia, siamo davvero certi che sia l’imputato, come persona singola, con la sua discrezionale volontà, al centro del sistema, anche quando ciò determini costi economici irrazionalmente consistenti e pressoché inevitabili distonie di giudizio?
4. I soggetti del processo.
4.1 Dopo 25 anni il pubblico ministero ha davvero conservato la ‘cultura della giurisdizione’? Chi è ‘entrato’ in magistratura negli anni successivi (e dopo l’introduzione di rigidi steccati territoriali per il passaggio tra le diverse funzioni) è abituato a essere parte e vede il giudice come ‘interlocutore altro’ (e il giudice tale lo vede a sua volta): alla positività di questa impostazione, non si è forse accompagnata una tendenza del pubblico ministero a non confrontarsi, in realtà, con l’esito del processo, considerandolo effettivamente, come è, l’unico parametro-guida delle scelte che nei diversi momenti si prospettano a chi deve esercitare e ha esercitato l’azione penale (la ‘cultura della giurisdizione’), invece appiattendosi sulla lettura indiziaria/probabilistica e sull’inizio del procedimento? Suscitano perplessità quelle iniziali conferenze stampa frequentatissime, che dall’opinione pubblica non infrequentemente vengono percepite come comunicazione di ciò che è e non di ciò che deve essere sottoposto alla (ed eventuale!) verifica del processo (del cui esito, quando e se arriverà, pochi comunque sapranno, anche con scarso interesse).
In aula dovrebbe andare sempre il sostituto che ha condotto le indagini e fatto le relative scelte procedimentali: più efficace la presenza della parte pubblica nel processo, e assicurata la ‘crescita’ professionale del pubblico ministero nella ‘cultura della giurisdizione’: non permetterlo sempre (anche per le vaste incombenze che competono al pubblico ministero, moltiplicate dal carico di lavoro) è uno dei maggiori limiti del codice attuale.
Ancora. Nel rispetto assoluto delle ragioni che determinano questi comportamenti, mi vado interrogando da tempo sulle presenze in aula, al fianco del sostituto designato per la trattazione del processo, del titolare dell’Ufficio di procura, a ‘impegnare l’intero Ufficio’ nelle scelte del singolo. Non si coglie, probabilmente, che questo tipo di presenze dimostrative (anche quando vogliono ‘coprire/tutelare’ il singolo sostituto) rischia di delegittimare il giudice: quasi che la sua decisione possa essere diversa se in aula c’è solo il sostituto o anche il titolare dell’Ufficio di procura. Ben venga il titolare dell’Ufficio di procura in aula: ma svolga attività processuale, anche in modo parziale. Mi sono chiesto, in proposito e certo provocatoriamente, se per caso anche il giudice non debba (in quelle circostanze) vedere in aula il suo presidente, a garantire anche visivamente la propria terzietà ed adeguatezza alla decisione del caso.
4.2 Imputato e difensore. Perché se il processo deve essere giusto e in tempi ragionevoli, se cuore del sistema sono il diritto al potenziale pieno contraddittorio e l’informazione compiuta dell’accusato, tuttora non è previsto (anche dopo la riforma della legge n. 67 del 2014 che ha radicalmente modificato la disciplina dell’‘assenza’) un espresso obbligo di presenza dell’imputato alla prima udienza (eventualmente a mezzo di procuratore speciale)? Una presenza destinata ad assicurare il diretto controllo del giudice sull’informazione relativa all’imputazione e sulla reperibilità al processo del principale interessato e, certo, non incompatibile con il diritto a non rendere dichiarazioni nel processo (la presenza per la regolarità del processo e la presenza per le dinamiche processuali sono aspetti del tutto differenti)? Ho il ricorrente pensiero se sia davvero ‘normale’ un sistema che vede lo stesso cittadino attivarsi, e se del caso correre, per non perdere il treno che gli interessa per spostarsi sul territorio, o per prenotare una visita medica, e divenire ‘ameba’ quando è coinvolto, come principale tra i protagonisti, in un processo penale.
Potrebbe sembrare aspetto secondario ma a me pare tutt’altro.
In realtà, l’esperienza di questi anni impone di riflettere se la relazione “contestazione, pubblico ministero, imputato, assistenza tecnica dell’accusato, accusa chiara, difesa ampia nel merito, giudice, decisione, giudicato, eventuale esecuzione” non abbia ormai concretizzazioni ambigue, rispetto al bene costituzionale tutelato del “processo giusto in tempi ragionevoli”. L’impressione è infatti che sempre più l’interesse alla concreta applicazione del modello “contraddittorio effettivo davanti al giudice” (sulla prova, sulle diverse questioni che caratterizzano il singolo processo in relazione alla contingente specifica contestazione) e “difesa piena nel merito” ceda al modello “tutela in rito” (con ogni resistenza volta a conservare: un sistema farraginoso e poco efficace per le notificazioni, la legittimazione delle impugnazioni solo e dichiaratamente defatigatorie che rispondano ad interessi contingenti di mero fatto, la svalutazione o negazione del senso sistematico della difesa fiduciaria e della codifesa).
Qual è la ragione sistematica per cui, nel “processo di parti”, le conclusioni della singola parte (pubblica o privata che sia) all’esito del giudizio di primo grado non delimitano anche l’ambito delle doglianze nei gradi successivi di giudizio? Se, avendo potuto svolgere tutte le difese che ritenevo dovute o anche solo opportune, e con la massima discrezionalità, ho alla fine presentato solo richieste sul trattamento sanzionatorio, non contestando la sussistenza della responsabilità (e così anche orientando obiettivamente il contenuto della motivazione della sentenza) perché debbo poi con l’atto di impugnazione poter contestare (ovviamente fatti sempre salvi l’ambito indicato dall’art. 129 c.p.p. e gli aspetti di stretta legalità) il punto della decisione sulla colpevolezza?
Provo a immaginare ragioni indicate dalle possibili risposte (diritto al ripensamento? strategia difensiva che sfrutti la diversa struttura dei due gradi per introdurre in appello questioni nuove in fatto? rimedio a possibili inadeguatezze della prima difesa? riflessioni che sorgono dalla lettura della motivazione?), ma dubito che queste, o altre, siano immediatamente sussumibili nei principi ispiratori di un processo giusto (perché ho avuto le possibilità di svolgere ogni difesa che ritenessi opportuna nel primo giudizio) in tempi ragionevoli.
Anche la generalizzata qualità tecnica dell’assistenza difensiva rimane un problema, destinato prevedibilmente ad aggravarsi (pure a fronte del numero impressionante, in esito al confronto con i dati europei, di professionisti abilitati alla difesa nel processo penale, dove sono i meri principi della statistica ad allertarci che a grandi numeri non può corrispondere generalizzata alta qualità), salvo che le recenti modifiche dell’Ordinamento forense non conducano ad una auto-selezione dei professionisti abilitati all’esercizio della professione nel settore penale. Ma pare più un auspicio che una prevedibile efficace evoluzione.
Nel momento in cui la classe forense ha preteso e assunto su di sé l’onere dell’organizzazione e della gestione della difesa d’ufficio, nessun rimedio è dato al giudice per fronteggiare autonomamente e tempestivamente le situazioni di contingente nota inadeguatezza.
Anche su tale punto è palese la necessità di una particolare responsabilizzazione delle Istituzioni dell’Avvocatura. Infatti, ogni pretesa di ampliamento delle tutele di difesa ‘in seconda battuta’, se pur solo parzialmente argomentata con la possibile inadeguatezza della difesa ‘in prima battuta’, porrebbe all’evidenza inevitabili esigenze di ripensamento dell’attuale assetto della difesa d’ufficio.
L’esperienza quale giudice dell’impugnazione mi ha posto a contatto con il preoccupante fenomeno della tutt’altro che occasionale sottovalutazione, da parte del difensore, del momento della composizione dell’atto di appello. Sempre più frequente è il caso di ricorsi per cassazione molto articolati, contenenti deduzioni di apparente pregnanza, che non possono però superare il vaglio dell’ammissibilità in quanto presuppongono aspetti in fatto del tutto trascurati nell’atto d’appello e, quindi, non oggetto del necessario apprezzamento del giudice del merito. E, ciò, non solo in casi in cui è mutata la persona fisica del difensore, ma anche quando, apparentemente, entrambi gli atti di impugnazione provengono dal medesimo studio legale.
Un tema ‘enorme’ sta spuntando, facendosi strada sia in qualche sentenza di legittimità e della Corte costituzionale (tra le altre, Cass. S.U. sent. 22242/2011 e Sez.6 sent. 66/2010; Corte cost. sent. 143/2013 e 136/2008), che nell’evoluzione normativa (prima l’art. 157.8-bis c.p.p., ora la richiamata legge n. 67 del 2014 che, sostituendo la assenza consapevole dal processo alla contumacia, rivalorizza in parte il valore sintomatico del rapporto imputato-difensore fiduciario), così ponendosi come questione cui l’attività di interpretazione deve trovare un’adeguata collocazione sistematica.
E’ il tema della rilevanza delle norme deontologiche forensi (specialmente quelle relative ai rapporti difensore-cliente, codifensori, difensore-giudice) nei percorsi argomentativi che risolvono problematiche del rito afferenti conoscenze e consapevolezze della ‘parte’-imputato, intesa unitariamente nella sua articolazione di difesa, codifesa, imputato. Può affermarsi, nel ragionamento di interpretazione della norma processuale, che (fatta salva la prova dello scostamento nel caso concreto, per le ragioni più varie) costituisce massima di esperienza la conformità della condotta del difensore alle norme deontologiche? Specularmente, davvero l’Avvocatura potrebbe insorgere, sostenendo il contrario?
4.3 E’ tramontata definitivamente, senza rimpianti, la figura del giudice padre-padrone del processo. Anche se permangono condotte occasionali dimentiche (un esempio in Sez.6, sent. 12509/2010; ancora, le fortunatamente non frequenti motivazioni della sentenza che cedono ad apprezzamenti para-etici e, significativamente!, contestualmente conducono a ‘prodotti’ non adeguati ai parametri logici indicati dalla lettera E dell’art. 606.1 c.p.p.), il giudice è normalmente consapevole del ruolo principale che hanno le parti nel giudizio e del ruolo subalterno che alle proprie iniziative officiose il sistema riconosce.
Paradossalmente, come prima pur accennato, il vero problema è la inadeguatezza occasionale delle due parti.
Il giudice sa che un bravo avvocato (quello che, in relazione a quel fatto ed alla persona di quell’imputato, è in grado di svolgere la migliore difesa in diritto e nel merito, quanto agli aspetti sulla responsabilità ma anche sul trattamento sanzionatorio, ed in rito, confrontandosi con ciò che è in concreto nel fascicolo, senza nulla tralasciare) ed un bravo pubblico ministero (quello che ha formulato un’imputazione adeguata al fatto ed introduce in modo corretto tutte le pertinenti prove disponibili nel suo fascicolo) sono la miglior precondizione per una propria decisione ‘giusta’. Con due parti preparate ed efficaci lo scostamento tra l’esito del processo e quello auspicabile nel rispetto delle regole (che non è necessariamente la verità sostanziale …) si attenua fino a scomparire.
Ma quando, per esempio, la parte pubblica è rappresentata da magistrato onorario (il cui apporto è pur sempre prezioso per il funzionamento degli Uffici) o da magistrato professionale tuttavia diverso da chi ha seguito le indagini preliminari e deciso l’esercizio dell’azione penale, ovvero quando la difesa è svolta da professionista poco motivato (per le ragioni più diverse), la ‘terzietà’ del giudice ‘va in tensione’: il ricorso sistematico ed amplio all’applicazione dell’art. 507 c.p.p. potrebbe divenire un aspetto-parametro indubbiamente significativo della presenza di una patologia, che può riguardare il giudice (che non accetta di rimanere ai margini della contesa) ovvero una o entrambe le parti del processo (per l’inconsistenza del loro apporto rispetto a punti essenziali, serialmente propri della tipologia di imputazione o di difesa rispetto ad una determinata imputazione, ovvero rispetto agli atti che legittimamente sono a conoscenza del giudice).
Davvero è significativa la relazione imprescindibile che c’è tra giudice terzo e parti preparate ed informate: ad attestare che i problemi di ciascuna delle categorie/funzioni sono problemi non solo di quella categoria/funzione ma del sistema nel suo complesso (qui, tra l’altro, si pone il tema colossale di momenti di formazione comune tra le varie categorie, magistrati giudicanti, magistrati inquirenti, avvocati).
Ancora, uno spunto per il processo d’appello.
Non tutti hanno chiaro che, in questo sistema, il processo ‘si chiude’ in appello.
Se non vi sono questioni di diritto (sostanziale o processuale) dalla soluzione controversa e se il giudice d’appello motiva dignitosamente le varie scelte di merito che gli competono (nella ricostruzione del fatto e nel trattamento sanzionatorio, dopo puntuale confronto con le specifiche doglianze della parte appellante e verifica degli atti), la sorte del processo è segnata (il ricorso per cassazione è imbuto strettissimo, i vizi della motivazione che soli rilevano sono preclusi dalla motivazione ‘dignitosa’ che si sia confrontata con i motivi d’appello). Ed allora merita ripensamento anche il criterio di selezione dei giudici d’appello, oggi forse ultimo caso in cui in definitiva decide il parametro della sola anzianità.
5. Questo processo è una cosa seria? Meglio, ha un senso sistematico coerente nella sua attuale struttura?
Le ‘riflessioni sparse’, richieste in libertà, non possono avere spessore sistematico. Sono solo spunti, tratti dall’esperienza professionale e dalla riflessione quotidiana, per approfondimenti successivi. Ed allora ecco qualche ulteriore spunto per recuperare e orientare il senso originale del processo attuale (difficile, dopo venticinque anni, definirlo ancora ‘nuovo’).
5.1 L’effettivo vero contraddittorio nell’acquisizione della prova va rimesso al centro del processo di primo grado; ed eventualmente anticipato ai momenti precedenti quando si rendesse necessario per i tempi o per la qualità della prova, con strumento più agile della procedura di incidente probatorio.
5.2 I riti alternativi al dibattimento vanno ripensati, sotto tre direzioni.
La prima: prevedere che nel caso di coimputati il processo è unico, salvo trattamento sanzionatorio individuale differenziato in relazione alle scelte dei singoli rispetto all’ammissione di responsabilità o all’utilizzazione del materiale probatorio.
La seconda: prevedere la possibilità di accordi già nelle indagini preliminari, alternativi al giudizio, aventi per oggetto l’applicazione immediata delle sanzioni/misure previste dall’ordinamento penitenziario; rendere ‘fisiologica’ la possibilità di un contatto formale preliminare tra le parti sul punto.
La terza: differenziare i riti in relazione alla gravità del titolo di reato ed all’entità della pena in concreto applicata in primo grado, eventualmente limitando, o escludendo, l’efficacia civile della sentenza e limitando l’impugnazione al solo ricorso per cassazione per i reati di minore gravità o per i quali in concreto è stata applicata pena solo pecuniaria.
5.3 La costituzione del rapporto processuale. Il tema della conoscenza/informazione della pendenza e dell’oggetto del processo, nelle sue varie fasi, è ovviamente essenziale.
Ricorrente è la domanda se la farraginosità del sistema di notificazione/conoscenza sia costo inevitabile per assicurare garanzie o, piuttosto, retaggio della difesa ‘dal’ processo intesa nel suo significato solo ostruzionistico. Anche la nuova disciplina dell’‘assenza’ mantiene caratteri di ambiguità, perché permette la trattazione del processo anche a fronte di situazioni che, poi, sono idonee a vanificare il giudicato (ed a rendere inutile il lavoro di tanti).
La ‘resistenza’ dell’Avvocatura al pieno operare di un regime che renda sovrapponibili le notificazione al difensore ed all’imputato ha in parte ragioni solide: se è infatti vero che proprio la farraginosità del sistema è tra le cause principali del dilatarsi dei tempi, tuttavia proprio chi ha significativa ‘vita di udienza’ ben ha compreso che alcuni imputati sono ‘ingovernabili’ dal difensore; in tali casi effettivamente la responsabilizzazione del difensore rischia di non trovare seguiti fronteggiabili con la pur necessaria diligenza professionale-
Vi sarebbe però un rimedio agile, efficace e di nessun peso per l’Avvocatura (per l’avvocato difensore). L’introduzione di un quarto comma dell’art. 96 c.p.p., che preveda che la nomina “non ha effetto” (così già l’art. 24 disp. att. c.p.p.) se non contiene sia la dichiarazione o elezione di domicilio, sia l’impegno a comunicare variazioni successive con l’avvertenza che, altrimenti, la notifica verrà eseguita presso il difensore di fiducia, sia la dichiarazione di consapevolezza che per la miglior difesa e la conoscenza del seguito del procedimento è necessario mantenere i contatti con il proprio difensore (insomma, le comunicazioni già contenute nell’art. 161 c.p.p., oltre all’onere di attivarsi col difensore per conoscere lo sviluppo del processo).
Non vi è ragione sistematica alcuna perché il contatto diretto tra difensore e persona sottoposta alle indagini o imputato non divenga anche veicolo per l’informazione essenziale a garantire l’instaurazione e la prosecuzione rituale del rapporto processuale, anche secondo i parametri della giurisdizione europea (così pure evitando, a seguito dell’espressa dichiarazione di consapevolezza dei propri oneri informativi, successive vanificazioni di giudicati). Infatti, con la soluzione indicata: il difensore non è coinvolto in alcuna assunzione di impropri oneri personali; la parte privata non può dolersi che le venga sollecitata l’indicazione di come informarla adeguatamente perché possa esercitare al meglio le proprie difese; l’inserimento nell’atto di nomina di tali informazioni ed oneri non solo non è incompatibile con la struttura e la funzione della nomina, ma ne esalta la funzione in termini di esercizio effettivo successivo del diritto di difesa.
Ovviamente, ogni riserva mentale che così provvedendo gli spazi di possibili irregolarità delle notificazioni si ridurrebbero drasticamente è considerazione solarmente irrilevante, perché rispondente ad interesse di mero fatto certamente non tutelato dalla Carta costituzionale.
5.4 La rivisitazione delle impugnazioni non é più dilazionabile.
5.4.1 Il giudizio d’appello, inteso come secondo giudizio di merito su quanto in concreto devoluto dalle parti, non risponde ad esigenze di giustizia superate. Esso è tuttora necessario, anche se solo chi concretamente ha svolto o svolge le funzioni di giudice dell’impugnazione ne constata la permanente necessità (il che fa sorgere dubbi sull’adeguatezza di proposte di riforma affidate solo a chi mai ha messo piede in appello).
Richiede però un ripensamento radicale nei suoi presupposti (accesso e contenuto), per evitarne la strumentalizzazione defatigatoria.
Occorre in proposito essere consapevoli che il sistema processuale nel suo complesso ha punti di non ritorno, in termini di spese, rapporto costi/benefici, forme ed effettive tutele, qualità/quantità del lavoro. Punti superati i quali la funzione sistematica del giudizio di impugnazione nel merito è vanificata, si dissolve.
Sul versante ‘parte privata’ va ridisegnato il requisito della specificità del motivo, che dovrà caratterizzarsi anche per la critica puntuale alle ragioni esposte nella sentenza di primo grado (se sia già così oggi è oggetto di parziale contrasto giurisprudenziale: per tutte Sez.6 sent.13449/2014 e Sez.3 sent. 37737/2014).
Anche per il giudice d’appello deve essere possibile dichiarare con ordinanza de plano l’inammissibilità dell’impugnazione pure nel caso della manifesta infondatezza.
Le ordinanze di inammissibilità, in generale, debbono poter essere attaccate solo con l’incidente di esecuzione (il cui esito sia poi ricorribile per cassazione), per evitare ogni impugnazione volta esclusivamente a dilazionare l’inevitabile giudicato sfavorevole.
Va considerata la possibilità di un giudizio monocratico d’appello per tipologie di reati di limitato disvalore e per pene di minima entità, da parte di giudici con un minimo di pregressa esperienza nelle funzioni d’appello (e in generale, sulle problematiche attuali del giudizio penale d’appello: DE NICOLO e FRAGASSO jr., Il giudizio penale d’appello: una stenosi patologia o un provvido pit stop? in questa Rivista, 2/3-2012, 9 ss.).
Sul versante ‘parte pubblica’ occorre prendere atto della giurisprudenza di legittimità che va consolidandosi nel ritenere legittima la prima condanna in appello solo quando la motivazione del secondo giudice del merito, oltre che rispondente ai parametri della lettera E) dell’art. 606.1, non solo si confronti espressamente con gli argomenti contenuti nella motivazione d’assoluzione e negli atti di difesa depositati prima della deliberazione d’appello, ma indichi specificamente le carenze intrinseche di quella prima motivazione (o per palesi vizi logici interni o per incompleto esame del materiale probatorio disponibile), sì che, in esito alla sua lettura, si comprenda come la prima decisione non potrebbe più essere ragionevolmente adottata: quindi, non lettura alternativa del medesimo materiale probatorio, ma unica lettura possibile dei fatti, nel rispetto del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio per l’affermazione di colpevolezza (per tutte, Sez.6 sentenze 4996/2011, 40159/2011, 8705/2013).
Questa giurisprudenza permette anche di individuare limiti di specificità cui subordinare l’impugnazione della parte pubblica.
5.4.2 Il giudizio di legittimità è in intollerabile sofferenza.
I dati ufficiali delle statistiche allegate alla relazione del Primo presidente per l’anno 2014 indicano che nel 2013 le sezioni penali della Corte di cassazione hanno definito 52.834 procedimenti: di questi, 5.205 sono gli annullamenti con rinvio, 4.108 gli annullamenti senza rinvio, 33.980 le dichiarazioni di inammissibilità, 8.421 i rigetti (1.120 sono ‘altre’ definizioni). Le inammissibilità sono state quindi il 64,3% di tutti i provvedimenti; di questi 33.980, 22.126 sono state deliberate dalla Settima sezione (che è quella deputata alla trattazione dei ricorsi che ad una prima lettura appaiano già manifestamente inammissibili). I magistrati impegnati nelle udienze penali sono stati, nell’anno, in media 108: il che vuol dire che la produttività media per singolo magistrato di cassazione è stata di 493 provvedimenti nell’anno.
Queste cifre sono assolutamente incompatibili con la funzione attribuita dal sistema processuale alla Corte di legittimità: la cd nomofilachia (l’esatta interpretazione delle norme sostanziali e processuali) e il controllo della logicità della motivazione di sentenze di merito ed ordinanze cautelari. Tant’è che questi numeri costituiscono un panorama assolutamente unico rispetto agli altri paesi europei (e, in genere, ad istituzioni analoghe di altri ordinamenti extraeuropei).
Basti un esempio per tutti, davvero emblematico della patologia in atto, assolutamente insostenibile (considerando anche che i ricorsi sono, per anno, in crescita continua: 29.142 quelli pervenuti nel primo semestre del 2014). Dunque, anche il ricorso senza motivi segue la trafila di tutti gli altri ricorsi immediatamente individuati come inammissibili: registrazione presso il giudice a quo, invio del fascicolo alla Corte di cassazione, registrazione nella cancelleria centrale, invio alla sezione ordinaria competente tabellarmente secondo il titolo di reato, ‘spoglio’ da parte del magistrato di turno, invio alla Settima sezione con fissazione di udienza, avviso al ricorrente della data dell’udienza (con notifica che deve avvenire almeno trenta giorni prima), celebrazione dell’udienza non partecipata e – finalmente! – ordinanza che dichiara inammissibile il ricorso perché mancano i motivi … Come la Politica possa addebitare ad altri le disfunzioni della Giustizia, rimane domanda senza risposta politicamente corretta.
Occorre restituire alla Corte di cassazione condizioni di lavoro che le permettano di svolgere in modo qualitativamente possibile la propria essenziale funzione.
Ogni dissenso non consapevole nella soluzione delle questioni giuridiche ha infatti effetti dirompenti nel lavoro della giurisdizione di merito e, in definitiva, nelle aspettative dei cittadini per una ragionevole certezza del diritto.
La quantità incompatibile con le esigenze di studio, approfondimento ed attenzione proprie della funzione di legittimità deve essere drasticamente recisa: specialmente se, come accade (lo indicano con indiscutibile chiarezza le statistiche della tipologia dei provvedimenti), le ragioni che sorreggono oltre la metà dei ricorsi sono riconducibili non all’effettiva tutela di aspetti afferenti il diritto di difesa quale tutelato dalla Costituzione, bensì all’interesse di mero fatto alla dilazione dell’esecutività della sentenza di condanna.
6. Sono passati 25 anni con il codice ‘nuovo’ e le sue modifiche, di fonte costituzionale o legislativa.
Ci sono le condizioni, di esperienza conoscenza e consapevolezza, per scegliere finalmente di dare coerenza alle scelte spurie dell’origine, per un processo ‘giusto’ e ‘in tempi ragionevoli’, dove siano costitutive l’autorevolezza dell’accusa, la possibilità di una efficace difesa sulla contestazione chiara e certa, la pienezza del contraddittorio nell’acquisizione degli elementi utili per la decisione, la centralità tendenzialmente esaustiva del primo grado, la specificità e l’effettività della valutazione propria dei successivi gradi di giudizio, la congruità di riti e risorse alla tipologia specifica del reato ed alle scelte contingenti delle parti pubblica e privata.
CARLO CITTERIO
Consigliere della Corte di Cassazione
* * *
l’avvocato
Di chi è colpa?
E’ la domanda che automaticamente si pone oggi un cittadino (pur se del tutto estraneo alle dinamiche della giustizia) dopo aver messo piede, anche per un istante, in un’aula di tribunale. Ed è l’interrogativo al quale dobbiamo ineludibilmente rispondere tutti noi, operatori del settore, a fronte di una quotidianità giudiziaria che vede il diritto processuale vivente (espressione quanto mai infelice, ma molto “alla moda”) allontanarsi sempre più dal diritto processuale vigente, con una deriva che appare tanto rapida, quanto inarrestabile.
Muovo dalla più banale delle riflessioni: se, trascorsi venticinque anni, il “nuovo” codice di procedura penale non viene applicato così come fu immaginato e se l’applicazione (id est: traduzione della norma in fatto umano) è necessariamente opera delle persone, ebbene i “colpevoli” di tutto ciò non possono che essere quelle stesse persone che operano, cioè appunto gli operatori.
Sento subito il mio indice puntare - animato da un incoercibile (e forse, a volte, eccessivo) spirito di autocritica - verso la categoria della quale faccio parte, l’avvocatura.
Troppo facile - mi si dirà - sparare a zero sugli avvocati, lanciare fendenti contro una sola componente del sistema, già azzoppata da una crisi che ha divorato anche le libere professioni, tartassata dal potere politico ed economico, attaccata da quello mediatico, additata spesso come la causa di tutti i mali che affliggono la giustizia (e non solo).
Voglio tranquillizzare chi legge: autocritica sì, ma sempre mirata e costruttiva. Senza, peraltro, mai dimenticare le altrui concorrenti responsabilità.
Autocritica in parte anche scherzosa, perché spesso un po’ di ironia non guasta.
Nasce così l’idea di giocare con gli aggettivi e con i participi, vestendo per un momento i panni di un antropologo, incaricato di classificare le diverse specie di avvocato che da ormai venticinque anni sono chiamate a cimentarsi con il “nuovo” codice di procedura penale.
Eccoci allora di fronte alla prima specie, quella dell’avvocato ingessato.
Sembra che non tutti si siano accorti di un’innovazione non proprio fresca di stampa: sono infatti trascorsi tre lustri dalla promulgazione della legge sulle indagini difensive, ma c’è ancora chi pensa - e non sono pochi, proprio tra le fila dei colleghi - che “a parlare con il testimone si fa peccato”.
E’ la visione di chi percepisce la fase delle indagini preliminari come un momento necessariamente connotato dal più rigoroso immobilismo del difensore, costretto ad attendere - appunto ingessato - le mosse del pubblico ministero ed il deposito del relativo fascicolo, contenente le risultanze delle uniche investigazioni degne di tale nome. Ed è la visione di chi ancora pensa che le indagini del difensore vadano classificate, sotto il profilo della loro efficacia dimostrativa, come indagini di serie B.
Chiariamo subito un punto: il mio non vuole certo essere un invito all’iperattivismo investigativo. Anche perché - di questi tempi - qualcuno, schierato tra le fila dei nostri detrattori, potrebbe pensare male, ipotizzando che il ricorso sistematico alle indagini difensive altro non sia che un escamotage volto a far lievitare il conto…
Ma come si possono dimenticare tutte le energie spese - (e quante da parte dell’Unione Camere Penali Italiane!) - per trasformare quella sorta di ectoplasma normativo rappresentato dall’art. 38 disp. att. c.p.p. in un corpo armonico di disposizioni dettate (una volta tanto) da un legislatore attento?
Si trattò, allora, di un’innovazione epocale.
La teoria della canalizzazione (secondo cui l'unico organo preposto alla raccolta ed al vaglio dei dati probatori era rappresentato dal pubblico ministero, mentre il difensore poteva al più canalizzare verso il dominus dell’indagine gli eventuali elementi favorevoli scoperti) venne spazzata via.
In un solo colpo furono introdotti due principi che apparivano, per il nostro ordinamento, assolutamente rivoluzionari.
Primo: l’avvocato - si stabilì - può raccogliere direttamente le prove, cioè fare proprie indagini, squisitamente private, senza dovere ricorrere al pubblico ministero.
Secondo: il materiale così acquisito - fu chiarito - ha la medesima efficacia probatoria che viene riconosciuta a quanto viene raccolto, direttamente o per delega, dalla pubblica accusa.
Eppure, a quindici anni di distanza, la specie dell’avvocato ingessato appare tutt’altro che estinta.
Alcuni dati particolarmente interessanti sono stati raccolti e pubblicati dall’Osservatorio delle indagini difensive (a cui l’Unione delle Camere Penali Italiane ha dato vita nell’ormai non più recente 2009) sulla base di un questionario diffuso lo scorso anno a tutti gli iscritti.
Un numero, prima di tutto: su 132 Camere Penali territoriali, solo 26 hanno risposto, dimostrando evidentemente quanto disinteresse vi sia per l’istituto.
Ancor più significativo è ciò che emerge dalla lettura dei moduli inviati all’Unione dalle 26 Camere Penali territoriali che hanno dato riscontro: solo il 18,5% degli avvocati ha riferito di utilizzare con una certa frequenza lo strumento; per contro il 25,9% ha dichiarato di non fare ricorso alle investigazioni difensive “mai” o “quasi mai”, mentre il 55,6% ha barrato la casella “qualche volta”.
Considerata la qualità del campione (trattasi, presumibilmente, di avvocati prevalentemente o esclusivamente dediti all’esercizio dell’attività in materia penale), il dato statistico appare estremamente significativo.
Quali le (inevitabili) conseguenze di un problema che, evidentemente, è di natura squisitamente culturale?
Solo due esempi.
Il questionario predisposto dall’U.C.P.I. è stato indirizzato anche ai magistrati, i quali, così come gli avvocati, sono stati invitati a rispondere (ovviamente su base anonima e volontaria) ad alcune domande.
Ebbene, non è mancato, appunto tra le fila della magistratura, chi ha sottolineato la differenza intercorrente tra la assunzione orale di informazioni e la ricezione della dichiarazione scritta, dovendosi ritenere preferibile la prima, che “garantisce una maggiore genuinità della prova”.
L’affermazione - non un sottointeso, ma una esplicita dichiarazione di diffidenza verso una delle forme tipiche in cui, per espressa previsione del legislatore, può cristallizzarsi l’attività investigativa del difensore - non fa che confermare l’esistenza di un problema culturale.
Mi chiedo: quali reazioni avrebbe suscitato un’analoga affermazione se formulata da un avvocato con riferimento ad un verbale riassuntivo (non accompagnato da fonoregistrazione) redatto da un pubblico ministero? Apriti cielo….
Il secondo esempio viene invece da un verbale stenotipico di cui è stata data lettura nel corso di un recente convegno organizzato dall’U.C.P.I.
Il difensore esordisce nell’esame premettendo di avere avuto un colloquio non documentato con il proprio teste.
L'avvocato viene immediatamente interrotto dal presidente, il quale - testualmente - afferma: “questa è proprio una cosa che lei non avrebbe dovuto fare”, aggiungendo che le informazioni assunte avrebbero dovuto essere “comunicate al pubblico ministero”. Infine il presidente conclude: “questo verrà valutato, chiaramente…”.
Ed allora torniamo al punto da cui siamo partiti: di chi è colpa?
Di quel magistrato che valuta una prova tipica (la dichiarazione scritta) come una non-prova, di quel magistrato che ignora la previsione normativa relativa al colloquio non documentato, oppure di chi, tra noi avvocati, continua ad affermare - l’ho già detto - che “a parlare con il testimone si fa peccato”?
Personalmente - ma è solo la mia idea - credo si debba guardare prima di tutto in casa nostra: la causa remota di questo macroscopico deficit culturale non può che essere individuata - io credo - nell’inerzia che connota la stragrande maggioranza degli avvocati, ancora così restii a “difendere investigando”.
Ma i problemi non sono finiti qui.
Anche tra i più ferventi attivisti si annidano alcune sottospecie che, ancora oggi, faticano a cimentarsi con l’istituto, chi per mancanza di una indispensabile visione di insieme, chi addirittura per difetto di una (ovviamente ancor più indispensabile) conoscenza normativa.
La prima sottospecie è quella dell’avvocato impacciato.
E’ il collega che, pur conoscendo perfettamente (e rispettando alla lettera) le previsioni contenute nel codice di rito e nelle disposizioni deontologiche, non riesce a destreggiarsi con la necessaria agilità. Ha letto, ha studiato, si è aggiornato, ma fatica a muoversi.
E’ l’avvocato che assume le informazioni dal teste omettendo sistematicamente un preventivo colloquio non documentato, ritenuto possibile, ma non indispensabile, valutato quasi come una forma di inquinamento della prova. Il tutto senza immaginare quelle che potranno essere le conseguenze di quella omissione: una domanda posta “al buio”, l’introduzione di un tema insidioso, una risposta manifestamente contrastante con le aspettative dell’interrogante, un verbale che mai potrà essere prodotto ed utilizzato a fini di contestazione.
E’ l’avvocato che, con candida ingenuità, consegna nelle mani del pubblico ministero il teste che, avendo rifiutato l’esame, ha evidentemente già dato un chiaro segnale di diffidenza, se non anche di ostilità.
E’ ancora l’avvocato che produce i propri verbali già nella fase delle indagini preliminari, chiedendo la revoca di una misura cautelare per sopravvenuta carenza indiziaria, senza avere soppesato con attenzione quelle che sono, da un lato, le ragionevoli possibilità di accoglimento dell’istanza e, dall’altro lato, le contromosse investigative che il pubblico ministero, una volta conosciuto il contenuto delle deposizioni, potrà tempestivamente adottare.
E’ l’avvocato che fatica a coniugare una corretta selezione dei verbali da produrre ad una scelta del rito che sia logica conseguenza di quella stessa selezione.
E’ insomma l’avvocato che ricorre sì allo strumento, ma lo utilizza male, commettendo errori di tattica che finiscono poi per compromettere l’intera strategia.
Su un gradino più basso della scala evolutiva siede poi l’avvocato incespicato.
E’ il collega che, senza avere correttamente valutato il proprio grado di preparazione, è irrimediabilmente inciampato in uno dei tanti trabocchetti che si annidano insidiosamente tra le pieghe della normativa di riferimento.
Ha deciso di verbalizzare le informazioni in forma riassuntiva, ma - dimenticando che l’ultimo inciso dell’art. 391-ter c.p.p. rende applicabile la disposizione generale contenuta nel terzo comma dell’art. 134 c.p.p. - non ha provveduto alla registrazione (così violando, peraltro, anche l'art. 7 delle “Regole di comportamento del penalista nelle indagini difensive”, approvate con delibera del 17 gennaio 2001).
Oppure ha omesso di fare sottoscrivere il verbale alla fine di ogni singolo foglio, o ancora non ha avvisato il prossimo congiunto della persona sottoposta ad indagini della facoltà di astensione riconosciutagli dalla legge, o ha convocato e sentito un soggetto già inserito nella lista del pubblico ministero, o infine non ha correttamente valutato il potenziale auto-indiziante delle dichiarazioni che la persona informata sui fatti ha reso.
Tutti inciampi che comprometteranno irrimediabilmente la validità dell’atto (determinando vuoi la nullità, vuoi l’inutilizzabilità del materiale acquisito) e che, in alcuni casi, esporranno il collega al rischio di una sanzione disciplinare.
Si spera infine, per chiudere questa rapida carrellata in tema di indagini difensive, sia ormai estinta quella specie - quella dell’avvocato spregiudicato - che in un passato fortunatamente non più recente diede avvio ad una dotta disputa giurisprudenziale in tema di falso in atto pubblico e di favoreggiamento personale.
E’ arrivato così il momento di parlare dell’avvocato rassegnato, specie che trova il proprio habitat naturale nelle aule in cui si celebrano le udienze preliminari.
Scrive Paolo Tonini nel suo celebre manuale: “L’udienza preliminare […] ha la funzione di assicurare che un giudice controlli la legittimità ed il merito della richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero”.
Scrive il 23 maggio u.s. un giudice dell’udienza preliminare: “…dato atto che la presente udienza preliminare riguarda 75 imputati, considerata l’epoca e la natura dei reati contestati e l’esiguità dei relativi termini di prescrizione, rilevato che solo per la notifica dell’avviso di fissazione udienza sono stati necessari sei mesi, ritenuto pertanto necessario nell’esercizio delle proprie funzioni di direzione dell’udienza ed al fine di concludere l’udienza preliminare in tempi stretti, di contingentare i tempi di discussione dei difensori, concedendo loro 5 minuti ad imputato…”.
Giustizia ad orologeria: cinque minuti di graziosa concessione. Altro che effettivo controllo della legittimità e del merito!
E la domanda è sempre quella: di chi è colpa?
Dei numeri, si potrebbe rispondere di primo acchito. La quantità già esorbitante e spesso crescente delle notizie di reato - potremmo dire - non può certo trovare adeguato riscontro in un organico (magistrati e personale amministrativo) cronicamente sottodimensionato.
Le novità introdotte a fine ‘99 in tema di applicazione della pena ed in tema di giudizio abbreviato condizionato - potremmo ancora osservare - non hanno fatto altro che produrre una lievitazione del carico di lavoro gravante sul giudice dell’udienza preliminare.
A tutto ciò si somma - potremmo ancora dire - l’aumento esponenziale delle richieste di archiviazione aventi ad oggetto i procedimenti bollati come “questione civilistica” (si pensi alla moltitudine delle c.d. truffe contrattuali, oggetto, in alcune sedi, di una vera e propria depenalizzazione di fatto), aumento che ha ovviamente ingenerato un proporzionale incremento delle udienze fissate a seguito di opposizione.
Insomma, i numeri - potremmo concludere - sono letteralmente esplosi nelle mani degli uffici g.i.p. / g.u.p. ed il sistema ha reagito nella maniera più prevedibile, trasformando l’udienza preliminare in una (purtroppo dovuta) perdita di tempo.
Ma si tratterebbe - riteniamo - di una semplificazione, di una non-risposta, che confliggerebbe con quella premessa da cui siamo partiti (se l’applicazione della norma è un fatto umano, i “colpevoli” non possono che essere ricercati tra gli operatori).
Guardiamo allora appunto agli operatori, tra i quali sicuramente rientrano tanto il magistrato cronometrista (forse il primo della lista), quanto l’avvocato rassegnato (sicuramente non l’ultimo).
I tratti distintivi di questa specie sono facilmente riconoscibili: perfettamente consapevole della assoluta inutilità delle proprie parole ed animato dal nobile intento di non rubare tempo prezioso a chi gli siede di fronte, l’avvocato rassegnato recita, seduto e con tono sommesso, la solita giaculatoria (“sentenza di non luogo a procedere…”). Automaticamente estrae dalla borsa l’agenda, ancor prima della lettura del decreto che dispone il giudizio, quasi a voler ulteriormente palesare la propria volontà di non interferire con l’altrui decisione.
L’avvocato rassegnato ha letto i migliori manuali di procedura penale, ma pensa si tratti solo di belle parole: l’udienza preliminare - spiega, uscito dall’aula, ad un giovane praticante, al quale tenta di insegnare i rudimenti del galateo processuale - è il momento in cui si scelgono i riti alternativi. Tutto il resto è scontato.
Spesso, peraltro, l’avvocato rassegnato fa parte anche di una sottospecie, che è quella dell’avvocato trafelato: l’agenda non solo è comparsa sul banco ancor prima del rinvio a giudizio, ma è anche rientrata precipitosamente nella borsa. E’ l’avvocato trafelato che si alza e che si avvia verso l’uscita, mentre il giudice (ed è lui, questa volta, ad essere rassegnato…) lo richiama (“avvocato, le prescrizioni per la formazione del fascicolo…”).
Voglio - per chiudere sull’argomento - chiarire anche qui il senso di quanto si è detto.
Il mio non vuole certo essere un inno alle perorazioni inutili, un elogio di chi si dilunga, sempre e comunque, nel discutere l’udienza preliminare, dando sfoggio di (tanto invidiabili, quanto inutili) capacità oratorie: non misuriamo il valore del nostro intervento con l’orologio.
Ma non dimentichiamoci: all’avvocato rassegnato corrisponderà sempre il giudice cronometrista. E la nostra protesta - tanto fondata, quanto necessaria - sarà sempre tardiva e finirà per cadere nel vuoto.
Siamo così arrivati, a grandi falcate, nel territorio dell’istruttoria dibattimentale, densamente popolato da una specie quanto mai prolifica, che è quella dell’avvocato esautorato.
Due attori sul palco ed un giudice spettatore: questo era ciò che il nostro legislatore aveva immaginato, dando per presupposto il fatto che l’esame incrociato rappresentasse il metodo di ricerca della verità (processuale) meno fallibile.
Un sistema che avrebbe dovuto esaltare la figura del difensore, rendendolo protagonista (in uno con il pubblico ministero) di quella fase processuale.
Di qui il conferimento al giudice di poteri limitati e residuali (indicazione - solo una volta esauritasi la sequenza esame / controesame / riesame - di temi di prova nuovi o più ampi e, solo in ultimo, formulazione diretta di domande, comunque seguita dall’eventuale intervento conclusivo delle parti).
Ed invece ecco l’avvocato esautorato: dopo avere abdicato sin dalle prime battute dell’esame, assiste silente alle domande del giudice autoproclamatosi dominus, il quale condensa in uno esame, controesame, riesame, indicazione di nuovi temi e domande dirette. Con buona pace dell’esame incrociato e di quel metodo di ricerca della verità processuale che tanto era caro ai padri del nostro codice!
Si tratta di una specie - quella dell’avvocato esautorato - immediatamente riconoscibile, perché portatrice di alcuni segni distintivi inconfondibili.
Esordisce immancabilmente con una richiesta formale di controesame (spesso rivolgendosi poi al cancelliere, per verificare che quella istanza istruttoria sia stata verbalizzata a chiare lettere), evidentemente non ancora convinto che il concetto stesso di esame incrociato porti con sé il diritto a controinterrogare.
Cerca di disturbare il meno possibile (e qui v’è il rischio di confonderlo con il già menzionato avvocato rassegnato, che siede - il verbo non è casuale - in udienza preliminare), pone le domande senza alzarsi, sottovoce, tremebondo, fino a quando l’implacabile stenotipista lo rimbrotta: “avvocato: microfono per favore…”.
Esordisce nel controesame dei testi del p.m. con la consueta premessa: “giudice, solo una brevissima precisazione….”.
E si rasserena immediatamente quando il giudice interviene, assumendo in prima persona il comando delle operazioni, così sollevandolo da un compito evidentemente sgradito.
Due dati sintomatici, per chiudere sul punto.
Nel corso del 2013 il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, l’IRSIG-CNR Bologna e l’Unione delle Camere Penali hanno promosso una ricerca statistica sullo “stato di salute” del nostro processo, inviando un questionario ad un campione casuale di avvocati, tutti appartenenti all’U.C.P.I.
Tra i quesiti era contenuto nel prestampato anche il seguente: “Una delle novità di rilievo introdotte dal c.p.p. del 1989 è l’esame incrociato dei testimoni e delle parti. Ritiene che accusa e difesa abbiano imparato a valorizzare questo strumento processuale?”.
Ebbene, solo il 34% degli intervistati ha risposto in senso affermativo, mentre il rimanente 66% ha espresso, senza mezzi termini, una valutazione negativa. Tra questi ultimi, solamente il 4,6% afferma che “l’accusa non ha imparato”, mentre il restante 61,4% ritiene che i demeriti siano anche (51,4%) o solo (10,0%) della difesa.
La conseguenza non può che essere una: appena l’11,3% ha riscontrato che il giudice del dibattimento rispetta le previsioni dell’art. 506 c.p.p., mentre gli altri colleghi hanno constatato che la disposizione viene osservata “solo a volte” (59,9%) o addirittura che la stessa viene sistematicamente violata (28,8%).
Siamo di fronte a numeri che si commentano da soli: due su tre tra gli avvocati penalisti italiani rilevano ancora oggi che la difesa non ha acquisito la necessaria dimestichezza con l’esame incrociato; e che il giudice, quale conseguenza pressoché inevitabile, continua sistematicamente a disattendere le disposizioni dettata sul punto dal legislatore.
Ma tant’è.
La nostra carrellata prosegue con l’analisi dell’avvocato inascoltato.
Mario Rossi siede nel primo banco, a fianco del proprio difensore. Lo sta ascoltando con attenzione, quasi con trasporto, apprezzandone le qualità, un insieme di logica e di retorica condito da una presenza più che brillante, una capacità di persuasione che suscita invidia. E’ contento della propria scelta: ha nominato un avvocato che sa proprio il fatto suo. E quel giudice - che pare ascoltare con grande attenzione e che, con cadenza regolare, annuisce e sorride, guardando proprio nella direzione dell’avvocato - non potrà non tener conto di ciò che il difensore gli sta spiegando.
L’avvocato conclude ed attende in piedi l’uscita del magistrato.
Ma il giudice non si alza. “Grazie avvocato. Rinviamo per finte repliche e per lettura sentenza”, dice mentre si allunga per avvicinare a sé il calendario delle prossime udienze.
“Finte repliche”: quale stranezza ha mai ideato - si chiede il signor Rossi - il nostro legislatore? O si replica, o non si replica. Cosa significa replicare per finta?
E’ purtroppo una scena a cui tutti noi abbiamo assistito ormai molte (troppe) volte.
Due sono i partiti che - ormai senza sottointesi - si sono apertamente schierati per le finte repliche e che sostengono la bontà di questa bizzarra innovazione.
Secondo alcuni, le interruzioni necessarie per consentire al giudice di ritrarsi in camera di consiglio non appena ultimate le discussioni finirebbero per dilatare i tempi dell’udienza, destinata poi ad interrompersi nelle prime ore del pomeriggio per la cronica (ed inevitabile) mancanza di assistenza pomeridiana da parte del personale di cancelleria. Insomma: più decisioni adottate nell’immediatezza, meno udienze celebrate, più carico di lavoro arretrato.
C’è poi chi - senza minimamente preoccuparsi di nascondere la vera ragione di quei rinvii - fa leva su una (presunta) riduzione del margine di errore che deriverebbe dalla possibilità di potere riflettere, in un momento successivo, sul contenuto del fascicolo (“mi prendo tutto il tempo che serve per non sbagliare…”).
Concentrazione? Immediatezza? Oralità? Ruolo del difensore?
Siamo chiaramente di fronte, anche in questo caso, ad un problema di carattere culturale.
L’avvocato inascoltato è divenuto tale - forse perché spesso incapace di opporsi, con la necessaria fermezza, al cristallizzarsi di una consuetudine contra legem - in quanto ritenuto inutile (se non addirittura nocivo, come potenziale causa di errore).
E’ l’idea di un processo senza parti, in cui un giudice iper-efficientista (stretto parente del giudice cronometrista), ispirato soltanto a logiche di presunta celerità, dopo avere già assunto - a fronte di parti inerti - il comando della fase istruttoria, vorrebbe ora eliminare quel fastidioso orpello rappresentato dalla discussione.
E’ un giudice che percepisce se stesso come unica soluzione di tutti i mali. E’ un giudice che non accetta - e questo è il vero punto dolente - di essere oggetto di un’opera di convincimento, se non anche di suggestione, che teme in qualche modo di vedere il proprio pensiero contaminato dalla parola delle parti.
Forse - una volta tanto - la “colpa” non è (o non è tutta) degli avvocati.
Molte ancora sarebbero le specie sulle quali mi piacerebbe soffermarmi.
Potremmo prendere in esame i connotati tipici dell’avvocato arruolato, il quale - orgogliosamente schierato nelle fila dell’esercito che combatte per la giustizia efficiente - evita con cura di sollevare questioni sulle notifiche (“tanto poi l’imputato viene comunque ricitato…”), o consente sistematicamente la produzione di tutti i verbali provenienti dal fascicolo del pubblico ministero (magari per poi invocare la concessione delle attenuanti generiche, dovute per il corretto comportamento processuale del … difensore!), o chiede il termine a difesa ad horas (“tanto basta dare un occhiatina al fascicolo…”).
Dovremmo poi parlare dell’avvocato confinato, ancora oggi sicuro che le decisioni della C.E.D.U. non spieghino alcuna efficacia diretta nel nostro ordinamento, in particolare nella materia penale.
Così come dovremmo occuparci dell’avvocato spezzettato, il quale - credendo che cognizione ed esecuzione rappresentino due segmenti a sé stanti, privi di interconnessioni - non ritiene di dovere orientare le proprie scelte di merito anche in virtù di quello che poi sarà il concreto esito di una eventuale condanna.
Sennonché il discorso rischierebbe di diventare lungo e, forse, troppo complicato.
Dovremmo iniziare ad indagare sulle cause dei fenomeni e sulle possibili soluzioni, sull’accesso alla professione, sulla necessità di eventuali limitazioni, più in generale sui numeri, sulla sovrapproduzione normativa, sulle volontà politiche...
Ma dobbiamo chiudere.
Abbiamo fin qui giocato con le parole, cercando di fornire una rapida carrellata di comportamenti non virtuosi cui non vorremmo più assistere.
E siamo convinti che ciò avverrà: le specie involute che ancora oggi popolano le nostre aule finiranno lentamente per estinguersi, mentre andrà via via affermando la propria supremazia quella dell’avvocato preparato, il quale, nel tempo, a sua volta si evolverà, per divenire, in ultimo, l’avvocato specializzato.
Appuntamento, allora, tra altri venticinque anni.
PIETRO SOMEDA
Avvocato del Foro di Padova