MORS TUA VITA MEA
Problematiche anche giuridiche sul trapianto degli organi
(PAOLA CAMERAN – capitoli 1-3 e CLAUDIO RAGO – capitolo 4)
(estratto dalla nostra Rivista Giustizia Insieme)
Sommario
b)Le norme che accolgono il sapere scientifico condiviso sulla cessazione della vita 1
c)Il punto di vista delle religioni 2
d)Il quadro normativo in materia di trapianti 2
1.a) La dichiarazione di volontà di donare 2
1.b) Le garanzie del donatore 3
1.e) Casi problematici nell’assenza di una dichiarazione di volontà del potenziale donatore 4
2.a) Livelli di rischio e processo di valutazione del rischio. 5
2.b) La mediazione pubblica per l’assegnazione di organi. Le liste di attesa 5
2.b) La scelta del candidato: un problema etico 6
2.c) La scelta del candidato: i criteri vigenti 6
3.1 La prospettiva del paziente che non vuole ricevere trasfusioni di sangue 7
3.2 La prospettiva del clinico: rianimare o no a fini non terapeutici? 8
3 La prospettiva dell’organizzazione sanitaria: a chi destinare gli organi non ottimali? 8
Premessa.
Questo contributo si propone di offrire un quadro generale della disciplina dei prelievi e trapianti da cadavere, evidenziando gli interrogativi – morali e/o religiosi, sociali, giuridici – sollevati da un’attività all'apparenza governata solo dalla migliore tecnica.
Da quando il progresso della tecnica medica ha consentito di tenere in vita le persone grazie all'impiego di respiratori artificiali, è stato inevitabile chiedersi quali sono i criteri che giustificano l'interruzione della respirazione artificiale. È questa la situazione che ha creato i presupposti per poter diagnosticare la morte cerebrale di una persona, ed ha, di conseguenza, aperto la strada alla medicina dei trapianti.
Lo sviluppo tecnologico, quindi, ha fatto sì che la morte non sia più solo un evento, ma anche un fenomeno al quale occorre dare una definizione. E questa è la premessa e la legittimazione della discussione bioetica circa i trapianti, con buona pace della polemica agitata da JONAS (Morte cerebrale e banca di organi umani: sulla ridefinizione pragmatica della morte, in Tecnica, medicina ed etica: prassi del principio di responsabilità, Einaudi, Torino 1997, pp. 167-184), il quale rilevava come il “tentativo di una definizione teorica” fosse “danneggiato” dall’interesse pratico per i trapianti, che vizierebbe la prospettiva teorica stessa, rendendola poco obiettiva.
La definizione di morte è ancora oggetto di discussione nell’opinione pubblica. Certamente una delle cause risiede nella disinformazione. C'è, poi, il timore diffuso che la scienza moderna non sia in grado di accertare con sicurezza il momento della morte o, peggio, che la stessa scienza non possieda i requisiti morali per farsi accertatrice e garante dell’estinzione della vita. Questo timore è espressione di una radicata quanto aprioristica diffidenza verso il sapere medico scientifico, identificato in un “potere forte” e non disinteressato da cui difendersi.
Di fatto ancor oggi le due principali cause della resistenza alla donazione di organi sono rappresentate da questo timore diffuso e dal “rispetto” del sentimento di pietà verso il defunto (AA.VV., Manuale del corso nazionale per coordinatori alla donazione e prelievo di organi e tessuti, VI^ edizione).
L’accertamento e la certificazione di morte sono disciplinati dalla legge 29 dicembre 1993, n. 578. La morte s’identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni del cervello. Questa può presentarsi in seguito a un arresto della circolazione sanguigna (elettrocardiogramma piatto per non meno di venti minuti) o a una grave lesione che ha danneggiato irreparabilmente il cervello. Si accerta pure la presenza contemporanea di: 1. stato d’incoscienza; 2. assenza di riflessi del tronco encefalico; 3. assenza di respiro spontaneo; 4. silenzio elettrico cerebrale. Queste condizioni – ovviamente – non ricorrono nei casi di coma o stato vegetativo.
La durata dell’osservazione per l’accertamento della morte non deve essere inferiore a sei ore sia per gli adulti sia per i bambini. Sotto l’anno di età sono richiesti ulteriori test strumentali (Decreto del Ministro della Salute 11.4.2008, che aggiorna il D.M. 22.8.1994 n. 582).
Il momento della morte coincide con l'inizio dell’esistenza simultanea delle quattro condizioni anzidette: lo specifica il D.M. 11.4.2008, e ne aveva dato atto la Corte Costituzionale nella sentenza 414/1995. Nel dichiarare l’infondatezza della q.l.c. dell'art. 589 c. p., la Corte ha, infatti, osservato che la nozione di morte di cui all'art. 589 c. p. rientra tra le fattispecie descritte mediante ricorso a elementi scientifici, etici, di fatto o di linguaggio comune, e a nozioni proprie di discipline giuridiche non penali: in sostanza, ha affermato la Corte, se ieri era «morto» colui il cui cuore non batteva, e oggi è «morto» colui il cui encefalogramma è piatto; ciò significa solo tener conto dell'evolversi delle fonti di rinvio (nella specie il subentrare degli artt. 4 della previgente legge sui trapianti, n. 644/1975, e 1 e 2 della L. 29 dicembre 1993 n. 578 sull’accertamento e la certificazione di morte) ed operare una interpretazione logico-sistematica, non un inammissibile procedimento analogico. Ed anzi il legislatore, che ha identificato la morte nella cessazione irreversibile delle funzioni dell'encefalo e ha indicato i diversi metodi di accertamento, ha opportunamente ricondotto a unità la definizione di morte, superando i dubbi circa sostanziali discriminazioni.
In effetti, c’era un equivoco implicito nel dubbio di costituzionalità: il giudice remittente, in sostanza, assumeva che il concetto di morte cui allude l'art. 589 c. p. sarebbe stato quello di morte naturalisticamente intesa (ossia derivante da arresto cardiocircolatorio), mentre, per effetto della normativa sui trapianti e sull'accertamento e la certificazione di morte, l’ordinamento avrebbe accolto una nozione di morte cerebrale (recependo la quale il giudice penale avrebbe dovuto operare un’analogia in malam partem o un’irragionevole disparità di trattamento nei vari casi di morte). Ed invece la morte è una sola, ed è tale sin dal momento della diagnosi della cessazione irreversibile delle funzioni del tronco e degli emisferi cerebrali. Anche la morte encefalica implica l’arresto respiratorio: la scelta di mantenere la ventilazione meccanica durante il tempo dell’accertamento della morte e fino all’eventuale prelievo degli organi non trasforma la morte in vita, ma unicamente preserva l’idoneità degli organi.
Il criterio cerebrale è oggi accettato presso le diverse culture e le principali confessioni religiose. E se talora, da un punto di vista teorico, permangono delle resistenze o dei contrasti interpretativi, si tende a rimettere il giudizio alla decisione del singolo.
Nella Chiesa cattolica e in quella anglicana non ci sono obiezioni alla scelta di fare riferimento a criteri neurologici. Giovanni Paolo II, in un discorso a un Congresso di Trapiantologi del 29 agosto 2000, ha affermato che la Chiesa, verificata la sintonia dei criteri di accertamento della morte in generale e della morte cerebrale in particolare con i principi di una sana antropologia, ritiene che tale consenso scientifico offra la necessaria certezza morale per il prelievo; inoltre il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che «il dono gratuito di organi dopo la morte è legittimo e può essere meritorio» (CCC 2301), ma deve essere liberamente scelto. Anche la Chiesa anglicana riconosce la morte nella cessazione delle funzioni cerebrali, a prescindere dall’attività di altri organi corporei, anche se fondamentali per la sopravvivenza dell’individuo (ad es. l’attività cardiaca), e afferma che la donazione degli organi è addirittura un "dovere cristiano”, pur ritenendo necessario in ogni caso un esplicito consenso del donatore al prelievo.
Le Chiese Cristiane Protestanti (evangeliche) non assumono posizioni ufficiali, ma danno indicazioni, che interpellano la coscienza dei credenti; in particolare riconoscono i doveri di solidarietà chiamati in causa dalla donazione di organi che, rilevano, può assumere solo la forma di un dono; accettano il concetto di morte cerebrale e si fidano della comunità scientifica.
Gli ortodossi considerano i trapianti con simpatia, purché alla presenza del consenso consapevole del donatore, il quale, con il suo dono, salva la vita biologica del ricevente ma salva anche la propria vita spirituale. È accettata la definizione di morte cerebrale purché siano applicati rigorosamente i criteri approvati a livello internazionale.
L’Ebraismo (esclusa l’ortodossia ebraica tradizionale) ammette il prelievo di organi finalizzato a salvare altre persone se il deceduto ha dato il proprio consenso alla donazione da vivo; ciò alla condizione che i chirurghi procedano in modo compatibile con il rispetto della dignità del deceduto (evitino di fumare o futili conversazioni, ammettano la presenza di un rabbino) e che il cadavere sia trattato, in seguito, per la sepoltura. La definizione di morte, rigidamente identificata dalla legge ebraica con la concorrente cessazione di movimento, battito cardiaco e respirazione, in anni recenti è stata ritenuta compatibile con la morte cerebrale. Attualmente si eseguono trapianti di cuore presso l’Hadassah Medical Center di Gerusalemme con l'autorizzazione del Grande Rabbi di Israele, alla presenza di numerose condizioni cliniche e no.
Nell’Islam si ammettono i trapianti in caso di necessità terapeutica se c’è il consenso esplicito del donatore o dei suoi familiari, in caso di morte. Tuttavia non tutti ritengono che la morte cerebrale sia un motivo valido per il prelevamento degli organi; per i contrari la morte cerebrale non è altro che una fase iniziale della morte, che precede e conduce l'essere umano alla morte definitiva.
Il punto di vista dei Testimoni di Geova si fonda sulla libera decisione personale, perché la Bibbia non si esprime sul punto. La Bibbia si esprime esplicitamente solo circa l'uso del sangue, che Dio considera sacro: per questo motivo impiegarlo in maniera impropria costituirebbe una profanazione. Perciò si ammettono sia la donazione sia l'accettazione di organi e tessuti ai fini di trapianto, ma questi devono essere privi di sangue e l'intervento di trapianto deve essere eseguito senza emotrasfusioni.
Il punto di vista del Buddismo è particolarmente articolato. Secondo la filosofia buddista gli esseri, dopo la morte, migrano verso un nuovo stato di esistenza, in un ciclo continuo di nascita e morte. E così la donazione di organi è vista positivamente, sia perché mezzo per preservare la rinascita umana di chi riceve la donazione, sia perché la donazione di organi può essere considerata una vera e propria azione di generosità, poiché il praticante buddista è incoraggiato a essere di beneficio per il maggior numero possibile di esseri viventi. Quanto al momento della morte, occorre ricordare che esso rappresenta il passaggio da uno stato di esistenza all'altro e che lo stato d'animo al momento della morte può fortemente condizionare il processo di migrazione verso la nuova esistenza. Perciò il morente deve essere lasciato in una condizione più possibile tranquilla, fino alla completa conclusione del processo del morire. Gli è che il momento della morte, inteso come il momento del distacco della mente dal corpo, può non corrispondere con il momento della morte identificato in accordo alla scienza medica occidentale. Si ritiene, infatti, che la mente possa rimanere interdipendente dal corpo, e quindi influenzabile dalle condizioni di quest'ultimo, anche per alcuni giorni dopo la cessazione del respiro. L'intervento di prelievo, che deve essere operato quanto prima dopo la morte cerebrale del donatore, potrebbe quindi interferire con il processo naturale della morte, eventualmente ostacolando una nuova rinascita umana, la quale consentirebbe al morente di essere di beneficio a molti altri esseri viventi (AA.VV., Manuale del corso nazionale per coordinatori alla donazione e prelievo di organi e tessuti, cit.)
La disciplina dei trapianti di organi da cadavere si rinviene nella legge sui trapianti (n. 91 dell’1.4.1999) e nella Direttiva Europea 53/2010 su qualità e sicurezza nel trapianto di organo. Non essendosi proceduto, con la L. 91/99, a una riforma organica della disciplina sui trapianti (e non solo della precedente legge n. 644 del 1975), sopravvivono ancora la legge sulle attività trasfusionali (n. 107/1990) e la speciale disciplina sui prelievi e innesti di cornea (legge n. 301/1993), eccettuata la parte contenente le norme sul consenso, che vanno ricondotte ai principi generali stabiliti dalla legge 91/1999.
Ovviamente, poi, trattando la legge dei prelievi da cadavere, ne rimane esclusa la materia dei trapianti da vivente. Ad oggi, in deroga al divieto di cui all’articolo 5 del codice civile, è lecito disporre a titolo gratuito di rene e parti di fegato, polmone, pancreas e intestino al fine esclusivo del trapianto tra persone viventi (leggi n. 458/1967 sul trapianto di rene, n. 483/99 sul trapianto di fegato, n. 167/2012 sul trapianto parziale di polmone, pancreas e intestino).
Ancora, restano esclusi dalla legge n. 91/99 i trapianti etero - plastici, cioè da animale a uomo (fece scalpore, il 26 ottobre 1984, il trapianto del cuore di un babbuino nel petto di una neonata - “Baby Fae” - morta un mese dopo) e i trapianti di organi artificiali (manca, attualmente, anche una definizione univoca che consenta di classificare come organo artificiale un dispositivo medico; può solo affermarsi, in via generale, che tali dispositivi sono equiparabili a un organo vero e proprio secondo la loro capacità di reagire ai bisogni immediati dell'organismo).
La probabilità di aver bisogno di un organo è molto superiore rispetto a quella di diventare donatore, perché gli organi umani trapiantabili sono una risorsa scarsa. Questo comporta che nel nostro, come in quasi tutti i paesi del mondo, si continui ancora a morire in lista d'attesa. Eppure l'Italia è, tra i paesi europei, ai primi posti per la percentuale di donazioni per milione di abitanti.
Di qui il rilievo del procedimento di procurement degli organi e l’interesse per le ragioni che contribuiscono a determinare la lunghezza dell’attesa nelle liste. Comprendere queste ragioni può aiutare ad individuare percorsi che consentano almeno di ridurre sensibilmente la carenza di organi.
1.a) La dichiarazione di volontà di donare
L’attuale normativa sui trapianti (legge n. 91 del 1999) prevede un sistema “aperto” di trapianti di organi e tessuti da cadavere, fatta eccezione per gonadi ed encefalo (art. 3), sicché recepisce automaticamente i progressi della chirurgia sostitutiva. Sono leciti solo i prelievi a scopo terapeutico (art. 6). Eventuali prelievi a scopo sperimentale o comunque di ricerca scientifica sarebbero punibili quali condotte di uso illegittimo di cadavere ex art. 413 c.p. (Mantovani, Diritto penale, I delitti contro la persona).
Peraltro recentemente (29.5.2014) la XII Commissione Affari Sociali della Camera ha approvato in sede referente un testo unico delle proposte di legge “Disposizioni in materia di utilizzo del corpo post mortem a fini di studio e di ricerca scientifica” - ovviamente non a fini di lucro -quale base per la discussione. Se le norme saranno approvate il divieto di uso del cadavere per scopo diverso da quello dei trapianti verrà meno, e sarà abolito l’articolo 32 del Regio Decreto 1592 del 31 agosto 1933, che riservava all’insegnamento e alle indagini scientifiche quei corpi che non erano richiesti dai familiari.
La disciplina della dichiarazione di volontà a donare organi e tessuti è ispirata al principio del c.d. silenzio assenso, nel senso che reputa sufficiente il mancato rifiuto di un soggetto previamente informato. Ognuno ha l'onere di consentire o dissentire circa la donazione di organi o tessuti entro novanta giorni dalla notificazione, da parte delle Asl, della richiesta di esprimere la propria volontà e dell'informazione che la mancata dichiarazione equivale a un assenso alla donazione (l. 91/1999, artt. 4 e 5). In sintesi, il prelievo è ammesso in presenza a) del consenso espresso del soggetto, risultante dai dati registrati nel sistema informatico dei trapianti o annotato sui documenti sanitari personali, oppure b) del mancato dissenso espresso entro il citato termine; i familiari del defunto non hanno il potere di rifiutare il prelievo; non è prevista l'ipotesi del consenso parziale, limitata cioè a certe parti anatomiche interne (e non, ad es., a quelle esterne perché alteranti l'aspetto del cadavere) oppure a specifici beneficiari. Tutte le dichiarazioni devono essere inserite on-line nel sistema informativo trapianti (SIT), consultabile in ogni momento dagli operatori autorizzati.
È bene chiarire che il descritto principio del silenzio assenso, sebbene previsto sedici anni fa dalla legge 91/99, non ha trovato attuazione. Attualmente la Dichiarazione di volontà a donare organi e tessuti è ancora regolata dalla norma transitoria di cui all’art. 23 l. 91/1999 e dal D. M. dell'8 aprile 2000, aggiornato con il D. M. dell'11 aprile 2008. Si è, infatti, ancora in attesa dell'emanazione dei decreti ministeriali che avrebbero dovuto regolare, entro novanta giorni dall’entrata in vigore della “nuova” legge, il sistema della notificazione da parte delle Asl e il sistema informativo.
Il regime – per così dire – “transitorio” ora vigente ammette il prelievo in due ipotesi: a) nel caso di consenso espresso del soggetto, risultante da documenti personali o da dichiarazioni depositate presso l’Asl, e prevalente rispetto a eventuali opposizioni di congiunti; b) nel caso in cui, in assenza di espressa volontà contraria del soggetto, manchi anche un’espressa volontà contraria dei congiunti (nel seguente ordine di priorità: coniuge non separato, convivente more uxorio, figli maggiorenni, genitori, rappresentante legale.). Per i figli minori di età il consenso alla donazione è efficace solo se espresso da entrambi i genitori.
Va pure segnalato che – a differenza di quanto già previsto dall'art. 6 della previgente legge 644/1975 sui trapianti da cadavere – il fatto che il cadavere sia sottoposto ad autopsia giudiziaria o riscontro diagnostico (la distinzione è basata sull'Autorità, giudiziaria o sanitaria, che ne fa richiesta e sulle diverse finalità, clinico - scientifiche o giuridico - forensi, dell’attività settoria: artt. 45 e 37 D.P.R. 285/1990, Regolamento di Polizia Mortuaria) non autorizza più alcuna deroga al principio del “prelievo conforme a volontà”. Il che è coerente con il principio di pari dignità dei cadaveri (Mantovani, Diritto Penale, cit.) e ancor prima con una concezione non utilitaristica delle spoglie umane, che rifiuta l'idea che il cadavere diventi qualcosa di cui poter profittare solo perché sia stato altrimenti “violato”.
In tali casi, se non vi sia un’espressa volontà contraria né del deceduto né dei congiunti, possono porsi problemi concreti di coordinamento tra le operazioni autoptiche e quelle di espianto, coordinamento non disciplinato dalla legge vigente e invece previsto dall'abrogato art. 12 della previgente legge 644/1975, il cui testo era il seguente: Se per la morte della persona di cui s’intende utilizzare il corpo per prelievi a scopo di trapianto, sorge sospetto di reato, l'ente ospedaliero o l'istituto universitario che intende compiere tali operazioni deve chiedere all'autorità giudiziaria apposita autorizzazione. Nel caso che l'autorità giudiziaria ritenga necessarie indagini autoptiche essa può disporre che queste siano eseguite contestualmente alle operazioni di prelievo. In tal caso l'autorità giudiziaria può incaricare delle operazioni autoptiche lo stesso sanitario che esegue il prelievo il quale viene all'uopo nominato perito ai sensi dell'articolo 314 del codice di procedura penale. L'autorità giudiziaria concede l'autorizzazione solo quando non vi sia pericolo di intralciare o deviare le indagini.
Tuttavia un collegamento tra autorità giudiziaria e sanitari, non previsto ma neppure proibito dalla legge, è – a mio avviso – eticamente doveroso e, per quanto suggeritomi dall'esperienza, concretamente realizzabile attraverso un percorso non dissimile da quello dettato dalla norma abrogata: nel caso vi sia un potenziale donatore per la cui morte sorge il sospetto di reato, richiesta delle autorità sanitarie al pm procedente di autorizzazione all’espianto; possibilità per il pm di autorizzare l'espianto contestuale alle operazioni autoptiche, eventualmente video documentando le stesse, onde contemperare le esigenze delle indagini con quelle terapeutiche dei pazienti in lista di attesa.
Nella mia passata esperienza di PM in una città di medie dimensioni non ho mai incontrato casi di pericolo d’inquinamento – in senso tecnico – della prova ostativi a un espianto (ovviamente, da donatore ritenuto idoneo dall’autorità sanitaria competente); al più, sentito il consulente tecnico nominato per l’autopsia, ho prudenzialmente limitato l’autorizzazione a certi organi. E so che la prassi era seguita da molti colleghi preoccupati, quanto me, di evitare che organi “buoni” per dei trapianti andassero persi per stanchezza (un piccolo sforzo organizzativo in più, obiettivamente, occorre).
In effetti, per i magistrati, quanto per i medici, dovrebbe valere il principio per cui non basta la padronanza della conoscenza scientifica e tecnica, il sapere cioè cosa fare e come farlo, perché non può mancare un riferimento ai valori. Sarebbe utile prepararsi ad affrontare con sufficiente competenza non solo le implicazioni scientifiche e tecniche della professione, ma anche quelle etiche.
Credo sia impossibile misurare l’incidenza della mancata attuazione delle norme riguardanti le dichiarazioni di volontà (di donare, di non donare, di non manifestare alcuna volontà al riguardo, di revocare o modificare precedenti dichiarazioni) sul deficit di risorse. Quelle norme avevano individuato – quindici anni fa – un equilibrio accettabile tra l'insopprimibile principio personalistico del rispetto della volontà del singolo e l’altrettanto cogente richiamo alla solidarietà sociale, che preme per la diffusione della chirurgia sostitutiva in grado di salvare vite umane. Ci si attendeva, a sistema normativo attuato, una crescita progressiva delle donazioni in linea con la dichiarata finalità della legge 91/99.
Nondimeno, dal 2002 l’Italia è tra i Paesi Europei più virtuosi nella donazione di organi.
1.b) Le garanzie del donatore
Sono garantite la vita del soggetto e, poi, la dignità del cadavere, quale proiezione ultra esistenziale della persona umana.
La tutela della vita del soggetto è garantita dalle norme che prevedono:
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la certezza dell’intervenuta morte del donatore: il concetto di morte è unico, quale che sia la destinazione del cadavere; coincide con la morte encefalica, totale e irreversibile (l. 29/12/1993, n. 578 e decreto ministeriale 11/4/2008, che aggiorna il decreto ministeriale 22/8/1994 n. 582); deve consistere nella morte certa, perché la morte non è la prognosi di un evento futuro, ma la diagnosi di un evento già avvenuto;
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la legittimazione di specifici soggetti ad accertare la morte: sono garantite l’estraneità assoluta dei medici del prelievo e del trapianto all'accertamento della morte del donatore, la capacità tecnica e la collegialità pluridisciplinare dei medici dell'accertamento, l’unanimità del giudizio di morte encefalica e la motivazione del giudizio (artt. 14 l. 91/99 e 2 l. 578/93);
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l’idoneità tecnica dei luoghi dei prelievi, costituiti da strutture sanitarie “accreditate”, dotate anche, per i prelievi d'organo e non per quelli di tessuti, di reparti di rianimazione (art. 13 l. 91/99).
La protezione della dignità del cadavere è garantita dalle norme che prevedono:
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la liceità dei prelievi al solo fine di trapianto terapeutico (non, come si è visto, per finalità di ricerca o altre: art. 6 l. cit.);
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il divieto di mutilazioni e dissezioni non necessarie e l'obbligo della ricomposizione dopo il prelievo (art. 14 l. cit.; artt. 411 e 413 c.p.);
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il già citato divieto – desunto dalla mancata riproposizione della norma prevista dall'art. 2 dell’abrogata l. 644/1975 – di prelevare comunque organi dai cadaveri sottoposti a riscontro diagnostico o ad autopsia giudiziaria;
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l'obbligo di garantire l'anonimato dei dati riguardanti il donatore (artt. 18 l. cit., 622 c.p., 167 e ss. l. 30.6.03 n. 196);
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il divieto d’importazione di organi da Stati la cui legislazione prevede il prelievo e la vendita di organi provenienti dal cadavere di cittadini condannati a morte (quali l'Iraq e la Siria: art. 19 l. cit.);
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il divieto di procurare o commerciare parti anatomiche a fine di lucro (artt. 2 e 19 l. cit.).
1.c) La rete dei trapianti
L’art. 7 co. 1 della legge 91/99 ha stabilito che L'organizzazione nazionale dei prelievi e dei trapianti è costituita dal Centro Nazionale per i trapianti, dalla Consulta tecnica permanente per i trapianti, dai centri regionali o interregionali per i trapianti, dalle strutture per i prelievi, dalle strutture per la conservazione dei tessuti prelevati, dalle strutture per i trapianti e dalle aziende unità sanitarie locali.
Il legislatore, includendo lo status quo ante, ha previsto una rete nazionale dei trapianti a struttura piramidale articolata su quattro livelli, rappresentati:
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dai Coordinamenti Locali per i trapianti (art. 12 della legge 91/99). Si avvalgono di medici esperti nel processo d’identificazione e mantenimento del potenziale donatore, istituiti per legge in ogni ospedale sede di prelievo;
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dai Centri Regionali per i Trapianti (art. 10 co. 6 legge 91/99). Ogni CRT gestisce, all'interno della propria regione, le liste di attesa e i rapporti con le aziende sanitarie (in particolare, le rianimazioni) per il monitoraggio dei potenziali donatori e le attività di prelievo di organi e tessuti; gestisce i rapporti con i centri di trapianto, nonché le allocazioni degli organi per i programmi di trapianto attivi in regione; applica le linee guida nazionali nell'ambito delle attività di donazione, prelievo, allocazione e trapianto di organi e tessuti; tiene il collegamento tecnico e scientifico con il centro interregionale;
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da tre Centri Interregionali di Riferimento (CIR), sorti spontaneamente tra il 1976 e il 1989 per realizzare un coordinamento scientifico e operativo che superasse il frazionamento del sistema sanitario a livello regionale, in questa materia: il Nord Italia Transplant program (NITp), l’Associazione InterRegionale Trapianti (AIRT) e l’Organizzazione Centro Sud Trapianti (OCST). Ognuna di queste organizzazioni, che coprono l’intero territorio nazionale, pur rispondendo ai principi sanciti dall'articolo 10 (commi 4 e 6) della legge n. 91/99, ha mantenuto nel tempo profili strutturali e funzionali che traggono le loro radici nella storia di ogni singola rete, così come si è venuta costituendo nel corso degli anni. Pur avendo caratteristiche costitutive e operative diverse, i CIR hanno sempre avuto in comune l’obiettivo di fornire un’efficiente ed efficace risposta alle necessità dei pazienti in lista in termini di qualità, quantità e trasparenza delle prestazioni erogate (allocazione degli organi e appropriatezza dei trapianti).
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dal Centro Nazionale Trapianti (CNT), con sede presso l'Istituto Superiore di Sanità, istituito e disciplinato dall’art. 8 della legge 91/99. Il CNT è formato dal Direttore Generale e dai venti rappresentanti indicati dagli assessori, presentati dalla Conferenza delle Regioni alla Presidenza del Consiglio e nominati dal Ministro della Salute. Il Direttore Generale del CNT risponde al Ministro, da cui dipende direttamente, e agli Assessori delle Regioni. Il funzionamento del CNT è disciplinato da un regolamento interno approvato dai membri; ha la funzione di determinare gli indirizzi e gli aspetti operativi della rete trapiantologia nazionale.
Il CNT si è, anzitutto, integrato con la rete organizzativa preesistente favorendo il collegamento, la trasparenza e lo scambio d’informazioni tra – e con - i centri regionali e interregionali. All’originale attività di elaborazione delle strategie più idonee per attuare la 91/99 e di controllo sul reciproco rispetto delle procedure si è, progressivamente, affiancato un ruolo sempre più operativo.
Mi riferisco ai programmi nazionali trapianti gestiti direttamente dal CNT: dall’1 febbraio 2011 quello “Iperimmuni”, che ha lo scopo di facilitare l’accesso al trapianto renale ai pazienti iperimmunizzati iscritti in lista d’attesa da almeno dieci anni; dal 4 novembre 2013 il CNT - attraverso la sua struttura operativa h 24 denominata CNT Operativo (CNTO) - alloca su tutto il territorio le urgenze di fegato, cuore e polmone alle quali si accede attraverso programmi nazionali di trapianto; analogamente, dal 13 gennaio 2014, è attivo il programma nazionale pediatrico; dal 28 marzo 2014 il programma di allocazione fegati eccedenti per “Macroarea”.
Su altro fronte, dal 1° aprile 2014 il CNT gestisce direttamente tutte le funzioni di coordinamento prima svolte dal CIR OCST (Organizzazione Centro Sud Trapianti), compresa la Porta Europea; a breve il CNT Operativo prenderà in carico anche le funzioni del CIR AIRT (Associazione InterRegionale Trapianti).
Come si vede sono in corso cambiamenti importanti, che a mio parere trovano fondamento e legittimazione nella competenza affidata al CNT dall’art. 8 co. 5 lettera a) l. trapianti (cura, attraverso il sistema informativo dei trapianti di cui all'articolo 7, la tenuta delle liste delle persone in attesa di trapianto, differenziate per tipologia di trapianto, risultanti dai dati trasmessi dai centri regionali o interregionali per i trapianti.) Infatti la locuzione “cura la tenuta” rinvia a un’attività più penetrante di quella finora svolta di mero “monitoraggio” delle liste di attesa regionali o interregionali e indica la necessità di liste uniche nazionali differenziate soloper tipologia di trapianto.
Evidenzio che il Sistema Informativo di Trapianti rappresenta, nel progetto del legislatore, il punto d’incontro tra le due parti della legge 91/99 dedicate alle condizioni dell’espianto e alla destinazione degli organi: quando la legge avrà piena applicazione, la lista nazionale dei donatori (individuati in base al principio del silenzio-assenso informato) e la centralizzazione delle liste di attesa dei pazienti (iscritti in una lista unica nazionale in base a dati omogenei di tipologia e urgenza del trapianto) garantiranno nel modo più pieno e trasparente a tutti i pazienti, ovunque si trovino, il diritto alle pari opportunità di accesso alla terapia sostitutiva. E le scelte “allocative”, comunque dettate – ovviamente - solo dai criteri “clinici e immunologici” di cui all’art. 1 e dai parametri dell’urgenza e della compatibilità di cui all’art. 8 co. 5 l. trapianti, una volta effettuate nell’ambito di una lista unica nazionale saranno più trasparenti.
Credo che la descrizione della rete trapiantologica italiana basti a dar conto dell'attualità della sfida dell'efficienza nel campo dell'organizzazione sia del prelievo sia del trapianto di organi. Sullo sfondo c’è l’esigenza imperativa di garantire la parità nell’accesso alle prestazioni a tutti i pazienti su tutto il territorio nazionale.
1.d) La scarsità di organi è dovuta all’insufficiente cultura della donazione o alle carenze strutturali e operative?
Si è già detto dei motivi della resistenza alla donazione di organi, ma anche che l’Italia è tra i Paesi Europei più virtuosi nella donazione.
Ora si vedrà che il persistente divario tra domanda e offerta (dal sito del CNT si apprende che in Italia nel 2013 sono stati eseguiti 2841 trapianti e i donatori sono stati 1318) è da attribuire più alle carenze strutturali che alle garanzie riservate al consenso dei donatori.
Attualmente, come del resto dal 1997 in poi, il numero di donatori per anno in Italia evidenzia un andamento decrescente da Nord a Sud: rinvio alle statistiche dei donatori, suddivise per anno e per regione di provenienza, con l'indicazione anche delle percentuali delle opposizioni degli aventi diritto, pubblicate nel sito del C.N.T. D'altro canto, con la modifica del titolo V della Costituzione (L. Cost. 18.10.2001, n. 3), le regioni hanno assunto una piena competenza in tema di organizzazione e sviluppo dei sistemi sanitari regionali, essendo riservata allo Stato unicamente la determinazione dei principi fondamentali della legislazione regionale in materia di tutela della salute. Per questo ogni regione o aggregazione interregionale è responsabile del reperimento degli organi per i pazienti iscritti nelle liste di attesa dei centri trapianto del proprio ambito territoriale, e gli organi prelevati in ciascuna regione o aggregazione interregionale sono prioritariamente offerti a pazienti iscritti nelle liste di attesa dell’area servita (artt. 1 e 2.1 delle Linee guida per la gestione delle liste di attesa e l’assegnazione dei trapianti di rene da donatore cadavere, in G.U. n. 144 del 21 giugno 2002). Ogni regione ha, quindi, sviluppato un proprio modello, nell’ambito del quale le diverse componenti indispensabili per rispondere ai bisogni di salute in tema di trapianti hanno avuto una propria evoluzione. Diverse modalità organizzative e di governo sono riscontrabili, ad esempio, nel numero dei centri di trapianto, nelle modalità di sviluppo della rete di procurement e così via. Sicché, per i pazienti iscritti nelle liste di attesa non nazionali, l’unica difesa dalla scarsa offerta di organi (e/o dalla minore qualità del servizio sanitario erogato) in alcune regioni è rappresentata dalla mobilità, ossia dalla libertà di scegliere la regione in cui iscriversi in lista. È chiaro che neppure questo può assicurare una piena parità di opportunità, né ai “turisti” sanitari, né ai residenti della regione interessata dall’afflusso, i quali vedono allungarsi le “proprie” liste di attesa, poiché lo spostamento della domanda di organi sbilancia le risorse (di organi ma anche di costose strutture sanitarie, finanziate con fondi regionali) disponibili in regioni “virtuose”. La virtù risiede non solo nella più efficace gestione del procurement di organi, ma anche nella politica sanitaria regionale, e nell’utilizzo dei fondi stanziati per il potenziamento della rete trapianti precisamente per tale scopo, piuttosto che al fine di colmare necessità diverse, per quanto sanitarie e impellenti.
Orbene, quando si discute del deficit di risorse per i trapianti (il settore sanitario nel quale l’attesa è più drammatica), è ricorrente l’affermazione per cui – a differenza di altri settori – il potenziamento strutturale, organizzativo, tecnologico e professionale potrebbe non incidere a sufficienza sui tempi di attesa, perché la possibilità del trapianto è condizionata prima di tutto da un gesto di altruismo e solidarietà del donatore.
Il che è ovvio, ma rischia di distrarre dall’attenzione verso l’aspetto organizzativo del servizio. E invece deve essere sottolineato il ruolo cruciale dell’organizzazione del sistema sanitario a livello regionale, non solo in termini di quantità e qualità dei trapianti eseguiti, ma anche in termini di donatori individuati. Infatti, la premessa necessaria per poter discutere di efficienza dell'organizzazione del prelievo risiede nell’efficienza della individuazione dei potenziali donatori.
È utile sottolineare, in proposito, che l'articolo 10 della legge 91 del 1999 assegna alle regioni, tramite i rispettivi centri regionali per i trapianti, la responsabilità delle liste di attesa, delle attività di prelievo (che richiedono rapporti tra e con i reparti di rianimazione presenti sul territorio e tra e con le strutture per i trapianti!), e dell'assegnazione degli organi in base alle priorità nelle liste di attesa. Inoltre gli articoli 13.2 e 16.1 della legge 91 del 1999 assegnano alle regioni la responsabilità di decidere – “ove necessario” – come incrementare nel proprio territorio le attività di prelievo e di trapianto di organi e tessuti. Ancora, per l'articolo 3 della legge 578 del 1993 (norme per l'accertamento e la certificazione di morte), se il medico della struttura sanitaria ritiene che sussistano i segni clinici di un’avvenuta cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo, ha l'obbligo di darne immediata comunicazione alla direzione sanitaria, la quale ha l'obbligo di convocare prontamente il collegio medico incaricato dell'accertamento. Ciò a prescindere dal fatto che nella stessa struttura sanitaria operi anche un Centro Trapianti, benché sia concreto il rischio che la non presenza in loco di una (costosissima) struttura per i trapianti incida sulla motivazione del personale sanitario nel lavoro di procurement.
Dunque, in concreto, nessuna diagnosi di morte cerebrale dovrebbe essere ignorata dalla direzione sanitaria della struttura in cui si trova il possibile donatore; in tutti gli ospedali dovrebbe essere possibile attivare prontamente il collegio in qualsiasi ora e giorno dell'anno, giacché una sua tardiva convocazione aumenterebbe il rischio di perdere il donatore; il Coordinatore Locale per i Trapianti e i suoi collaboratori dovrebbero essere pronti per la comunicazione della morte ai familiari e per la proposta di donazione (proposta, in genere, successiva alla notizia della morte, per permettere un’iniziale elaborazione emotiva della perdita, oltre che per trasmettere il messaggio che si tratta di due processi separati e indipendenti, benché paralleli – al punto che hanno due diversi referenti a garanzia della non interferenza degli obiettivi). Se le strutture sanitarie non sono adeguatamente organizzate ed efficienti, il “dono” può non venire alla luce, o andare perduto.
Orbene, il CNT – monitorando l’andamento dei prelievi e trapianti eseguiti sul territorio nazionale, e le liste dei pazienti in attesa di trapianto – è giunto a concludere che il problema della carenza di organi è “[…] dovuto all’organizzazione del sistema sanitario a livello regionale. Gli indici di statistica sanitaria dicono con chiarezza che quanto più il Sistema Sanitario è sviluppato e robusto nella sua rete operativa, tanto più vi sono segnalazioni di donazioni. Ciò dipende dal grado di attività delle strutture di emergenza e dalle unità di cura del neuro leso. E oggi, in tempi di aziendalizzazione delle strutture sanitarie, l'efficienza di ogni singola Azienda deve essere misurata in termini di produttività, e non solo in termini di numerosità di trapianti eseguiti, ma anche in termini di donatori individuati.”. (AA.VV., Manuale del corso nazionale per coordinatori alla donazione e prelievo di organi e tessuti, VI^ edizione, Editrice Compositori, pg. 376).
1.e) Casi problematici nell’assenza di una dichiarazione di volontà del potenziale donatore
Vigendo il regime transitorio di cui all’art. 23 l. 91/1999, è necessario anzitutto accertare se il potenziale donatore avesse in vita espresso formalmente la propria determinazione sul punto. Se l’interrogazione al Sistema Informativo Trapianti e la richiesta ai congiunti di conoscere se il loro parente avesse procurato di manifestare il suo orientamento attraverso una dichiarazione scritta danno esito negativo, è necessario accertare quale fosse il pensiero del deceduto chiedendolo ai familiari, che ne diventano testimoni. In mancanza di dichiarazioni di scienza dei familiari saranno ancora i familiari “aventi diritto”, sino all'entrata in vigore del silenzio assenso informato, a dover esprimere il proprio non dissenso al prelievo.
Un primo interrogativo è il seguente. Se non esistono “aventi diritto” sul/dal potenziale donatore, ma altri familiari/conoscenti (fratelli, compagno non convivente o coniuge separato o divorziato, medico di base, confratelli di ordini religiosi ecc.), si può procedere al prelievo? Non potendo costoro opporre un diniego rilevante, poiché non figurano nell'elenco degli aventi diritto di cui all'articolo 23 co. 2 legge trapianti, il prelievo sarebbe legittimo. Tuttavia il CNT suggerisce comunque di interpellarli, sia perché possono testimoniare sul pensiero del deceduto, sia perché ragioni di opportunità suggeriscono di rispettare il volere espresso anche dai non aventi diritto.
Ancora: dato il “consenso” di un avente diritto, è possibile soprassedere sul dissenso di altri aventi diritto, benché presenti e richiamati nella legge dopo il primo? La risposta è affermativa, perché il secondo comma dell'articolo 23 cit. prevede un elenco di aventi diritto scandito secondo un ordine preciso (“il coniuge non separato o il convivente more uxorio, o, in mancanza, i figli maggiori di età, o, in mancanza di questi ultimi, i genitori ovvero il rappresentante legale”). Nella prassi ci si attiene prudenzialmente al criterio per cui, in assenza di un’esplicita intenzione del donatore, la donazione debba essere interpretata come espressione della volontà del nucleo familiare, e si preferisce rispettare il dissenso di uno o più appartenenti al nucleo.
Se, invece, il potenziale donatore non è identificato, ci si trova nell’impossibilità di interrogare il SIT e non è nemmeno possibile informare i familiari, presupposti – questi – indispensabili ex lege 91/99. In questo caso non è legittimo alcun prelievo.
Infine può accadere che il potenziale donatore, benché identificato, non abbia familiari aventi diritto presenti in terapia intensiva o comunque reperibili, in genere perché è un cittadino straniero. L'indicazione operativa del CNT è di fare ogni tentativo per stabilire un contatto con gli aventi diritto, anche con la collaborazione delle forze di polizia o delle ambasciate e consolati. Se la ricerca ha successo, è possibile per il medico – che è incaricato di pubblico servizio – recepire l'opposizione o il consenso al prelievo anche per via telefonica e annotarlo in cartella clinica, in attesa di una formalizzazione anche via fax. Se la ricerca non avesse successo in tempo utile per la donazione, sarebbe legittimo il prelievo ai sensi dell'articolo 23 cit., non risultando né un’esplicita volontà contraria dell'interessato, né essendo intervenuta l'opposizione di familiari aventi diritto.
Premesso che il principio base che regola i trattamenti sanitari, e quindi anche la pratica dei trapianti, è quello della proporzionalità terapeutica (in concreto: buone probabilità di successo, a parità di rischi), esiste un diritto al ricevimento di organi? La risposta è no: il diritto del ricevente finisce là dove inizia il diritto fondamentale del donatore all'integrità fisica.
Diversa, a mio avviso, è la situazione sul fronte dell'equità nell'assegnazione degli organi donati. In questo caso, poiché a essere assegnato è un bene essenziale per la salute, chi aspetta un trapianto ha il diritto di veder rispettati tutti i criteri – predeterminati e astratti – di assegnazione. In questa prospettiva la trasparenza garantita dalla tracciabilità degli organi, dalla procedimentalizzazione di ogni decisione (che deve lasciare una traccia documentale) e dal diritto di accesso tutelano il diritto di uguaglianza sostanziale dei riceventi.
In concreto però bisogna confrontarsi con il dato di fatto della diversità delle modalità di accesso ai programmi di trapianto, come pure dei criteri di allocazione degli organi; il che si aggiunge alla già riferita variabile della diversa distribuzione regionale degli organi disponibili. Rimane, così, il dubbio che pazienti di regioni diverse abbiano diverse possibilità di cura. E allora mi domando anch'io se chi aspetta un trapianto non avrebbe diritto all'iscrizione in una lista unica nazionale, con criteri uniformi, per l'indicazione al trapianto e per l’allocazione (così Giovanni Boniolo al 25° Convegno AIRT, Torino, 3-4.4.2014). Qualche riflessione in proposito sarà possibile dopo avere fornito alcune informazioni sul processo che inizia con l'arruolamento in lista dei pazienti e finisce con l’allocazione degli organi.
2.a) Livelli di rischio e processo di valutazione del rischio.
L'esito di un trapianto da donatore cadavere dipende da molteplici fattori, legati in parte alle condizioni del ricevente e in parte alle caratteristiche del donatore.
Con riferimento alla valutazione d’idoneità del potenziale donatore è pacifico che la prevenzione della trasmissione di infezioni con un trapianto d'organo richiede il rispetto di un percorso ben delineato che consenta di ridurre al minimo il rischio per il ricevente.
Le linee guida contenenti i criteri generali per la valutazione d’idoneità del donatore (previste dal decreto 2/8/2002 del Ministero della salute, Disposizioni in materia di criteri e modalità per la certificazione di idoneità degli organi prelevati a scopo di trapianto, approvate dalla Conferenza Stato-Regioni il 30.9.2003, nella revisione definitiva in vigore dal 9/6/2008: http://www.trapianti.ministerosalute. it/imgs/c_17_normativa_1277_allegato. pdf) si propongono di definire i livelli di rischio accettabili/non accettabili per l'utilizzo degli organi e stabilire le modalità operative del processo di valutazione del rischio . Così sono definiti i livelli di rischio:
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inaccettabile (nessun organo può essere utilizzato a scopo di trapianto);
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aumentato ma accettabile (pur in presenza di agenti patogeni o patologie trasmissibili, l'utilizzo degli organi è giustificato dalla particolare condizione clinica, o dalla urgenza clinica del ricevente: in sostanza il rischio del non trapianto, per il ricevente, viene valutato sensibilmente superiore rispetto al rischio del trapianto; al candidabile viene chiesto il consenso informato alla candidatura e, eventualmente, anche prima del trapianto);
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rischio calcolato (nei protocolli per trapianti elettivi: la presenza di uno specifico agente patogeno o stato sierologico del donatore è compatibile con il trapianto in riceventi che presentino lo stesso agente o stato sierologico);
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rischio non valutabile e/o rischio potenzialmente elevato per patologie infettive (vuoi per per mancanza di uno o più elementi di valutazione vuoi perchè il donatore ha tenuto, nelle due settimane precedenti la donazione, comportamenti ad elevato rischio di acquisizione di patologie infettive la cui presenza non sarebbe rilevabile neppure con l'utilizzo delle più sensibili metodiche di biologia molecolare: uso di droghe per via parenterale, rapporti sessuali a rischio, esposizione a sangue di soggetto con sospetta infezione da HIV, detenzione in ambiente carcerario ....). In questi casi l’utilizzo di organi del donatore non è precluso a priori, ma va valutato caso per caso, in funzione delle informazioni disponibili e/o delle particolari condizioni dei riceventi. Tali condizioni possono essere condizioni salvavita - soggetti candidati al trapianto che si trovino in condizioni di urgenza clinica comprovata e per i quali, a giudizio del clinico trapiantatore, il beneficio atteso risulti superiore al rischio di contrarre la infezione - o anche condizioni elettive - soggetti con documentata infezione da Hiv al momento dell'inserimento in lista o comunque soggetti per i quali, a giudizio del clinico trapiantato, il beneficio atteso risulti superiore al rischio di contrarre la infezione. In ogni caso è raccomandato avvalersi del parere degli esperti della Seconda Opinion del Centro Nazionale Trapianti; il paziente divenuto candidabile per il trapianto deve dare conferma del consenso informato precedentemente espresso;
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rischio standard (dal processo di valutazione non emergono fattori di rischio per malattie trasmissibili).
Qualora ci fossero dubbi vanno interpellati gli esperti del Centro Nazionale Trapianti per una Second Opinion.
Benché un accurato processo di valutazione consenta di ridurre al minimo il rischio, anche in caso di rischio standard non è comunque possibile garantire con assoluta certezza l'assenza di patologie potenzialmente trasmissibili. Di ciò il paziente ha diritto di essere bene informato.
2.b) La mediazione pubblica per l’assegnazione di organi. Le liste di attesa
Possono essere iscritti in lista di attesa per un trapianto tutti i pazienti – cittadini e non – assistiti dal Servizio Sanitario Nazionale.
In conformità a indicazioni nazionali, ogni centro di trapianto ha il compito di valutare l’idoneità clinica dei candidati che afferiscono al proprio programma di trapianto, e di curarne l’iscrizione in lista di attesa e gli eventuali aggiornamenti successivi.
Generalmente è consentita una sola iscrizione; fa eccezione il trapianto di rene, per il quale è possibile l’iscrizione nelle liste di attesa di un centro trapianti sia nella regione di residenza sia in un’altra regione (e se la regione di residenza esegue un numero di donazioni inferiore a cinque donatori per milione di abitanti, il paziente può iscriversi, oltre che nel centro dell’area di residenza, in due altri centri di sua scelta). Per il trapianto di fegato ed il trapianto di rene le diverse possibilità sono normate dalle linee guida. Per gli altri programmi di trapianto (cuore, polmone, pancreas), pur non essendoci specifiche Linee Guida di riferimento, si pratica comunque la “mono iscrizione” sul territorio nazionale, sempre effettuata attraverso il centro trapianti prescelto dal paziente. Per il trapianto d’intestino ci si può iscrivere, ora, solo presso i tre centri autorizzati sul territorio nazionale.
Per i pazienti pediatrici (entro il 15° anno), per i quali è istituita la lista unica nazionale, l’iscrizione è eseguita dal centro interregionale cui afferisce il centro trapianti scelto dal paziente.
Gli organi prelevati in ciascuna regione o aggregazione interregionale non riservati ai programmi di trapianto su base nazionale sono prioritariamente offerti a pazienti iscritti nelle liste di attesa dell’area servita; sono anche previsti protocolli di scambio di organi prelevati (“prestati” salvo “restituzione”).
Richiamo l’attenzione sull’importanza sia della tempestività dell’iscrizione dei pazienti in lista di attesa sia della trasparenza dell’inserimento dei loro dati (clinici, immunologici e soprattutto di urgenza del trapianto richiesto), perché dall’una e dall’altra dipende la posizione di ogni paziente nella lista. Solo l’omogeneità dei dati in comparazione, infatti, giustifica l’individuazione di un ricevente piuttosto che di un altro.
2.b) La scelta del candidato: un problema etico
L’introduzione della macchina per l’emodialisi, capace di sostituire le funzioni renali compromesse, fu forse la prima occasione nella quale fu affrontato apertamente il problema morale dei criteri di priorità nella distribuzione di una risorsa salvavita.
Il primo trattamento con la macchina di Scribner avvenne il 9 marzo del 1960, a Seattle. Ma la macchina era molto costosa e disponibile in un numero limitato di esemplari, certamente inferiore alle necessità dei pazienti. Di qui la necessità di scegliere i candidati cui consentire l’accesso al trattamento e le persone cui negarlo. E questa scelta non poteva essere condotta solo secondo criteri strettamente medici. Anche dopo quella prima selezione, infatti, rimanevano comunque troppi candidati con le stesse necessità di beneficiare del trattamento.
Per questo fu istituita una commissione mista, composta non solo da medici. Il Comitato di Seattle, uno dei primi di questo tipo, rappresenta una pietra miliare della ricerca bioetica e ne sostanzia due caratteristiche tuttora fondamentali: l’interdisciplinarità e la finalizzazione a rispondere a domande pressanti provenienti dalla pratica clinica che richiedono risposte in tempi ristretti.
Alle riunioni del Comitato partecipò la cronista Shana Alexander, la quale poi descrisse in un servizio per «Life» le procedure seguite per dare soluzione ai casi. La Commissione, riferisce l’Alexander, fece una prima cernita eliminando una serie di pazienti che non rientravano nei criteri stabiliti all’inizio, quali quelli concernenti i parametri medici e psichiatrici, all’età (erano esclusi bambini e ultraquarantacinquenni) e alla residenza (erano ammessi solo i residenti nello Stato di Washington, perché erano loro a sostenere, con le tasse, quel tipo di terapia). Tuttavia, dopo questa prima selezione, rimanevano ancora quattro candidati per ogni posto, così che, dovendo restringere ulteriormente il loro numero, la Commissione fece riferimento al c.d. «valore sociale» dei destinatari della terapia. Si diede la precedenza ai capifamiglia, con moglie e figli a carico. Inoltre si tenne conto del contributo che ciascun candidato avrebbe dato alla comunità, in caso di sopravvivenza. La giornalista, nel suo reportage, osservava che, di fronte a un peso così grande come quello implicato dalla scelta tra chi far vivere e chi lasciar morire, non si potevano lasciare soli i medici, e che questo fardello doveva essere condiviso da tutta la società (S. Alexander, They Decide Who Lives, Who Dies, «Life», 9 November 1962, p. 103; F. Turoldo, Breve storia della bioetica, febbraio 2014).
Il problema dell’allocazione delle risorse in campo sanitario, in altre parole della razionalizzazione della spesa sanitaria, ha acquisito una sempre maggiore centralità nel dibattito bioetico, e non solo con riferimento alla microallocazione delle risorse (relativa, come nel caso di Seattle, alle decisioni cliniche in condizioni di scarsità di risorse), ma anche con riferimento alla macroallocazione, ovvero alle politiche sanitarie nazionali o regionali.
Il quesito fondamentale è il seguente: quale limite è possibile fissare alle richieste potenzialmente illimitate di cure mediche da parte dei cittadini?
E le risposte, a grandi linee, fanno riferimento a tre criteri principali:
-
quello delle risorse (pubbliche) disponibili (Keynes);
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coniugato al principio dell’uguaglianza delle opportunità (proposto dal filosofo americano John Rawls, Una teoria della giustizia, 1971, con riferimento al problema della giustizia e dell’equa distribuzione delle risorse; applicato da Norman Daniels, in Just Health Care, al tema dell’allocazione delle risorse in campo sanitario);
-
ovvero coniugato al principio utilitaristico. Per gli utilitaristi la distribuzione delle risorse in campo sanitario è giusta nella misura in cui massimizza il benessere del maggior numero d’individui.
A livello microallocativo, questo fu il criterio scelto dalla Commissione di Seattle per decidere chi ammettere alla dialisi: si preferiva fare la dialisi a un padre di famiglia titolare di un’azienda, piuttosto che a uno scapolo disoccupato, perché della sua salute avrebbe beneficiato un numero molto maggiore di persone.
Lo stesso criterio può governare le scelte anche a livello macroallocativo. Così, un utilitarista preferirebbe certamente investire risorse nel campo della prevenzione (per esempio nei vaccini da somministrare ai bambini), piuttosto che in un settore quale quello dei trapianti d’organo. Nel primo caso, con una spesa relativamente bassa si ottengono risultati su di un numero considerevole di persone con una lunga attesa di vita sana, mentre nel secondo caso s’investono enormi risorse per una singola persona con aspettative di vita temporalmente e qualitativamente inferiori. Per calcolare l’utilità delle diverse scelte di allocazione delle risorse gli utilitaristi hanno individuato delle specifiche metodologie, quale ad esempio quella basata sull’unità di misura denominata QALY (Quality-Adjusted Life Year), che misura gli anni di vita che si possono guadagnare con una certa terapia, in rapporto al grado di salute da cui saranno caratterizzati. Ad esempio, un anno in ottime condizioni di salute vale 1, in condizioni precarie 0,5, in condizioni molto precarie 0,2 ecc. In conformità a questo criterio, la scelta più razionale sarà quella che, a parità di investimento, produrrà il livello più alto di QALY.
2.c) La scelta del candidato: i criteri vigenti
Il sistema-trapianti è ordinato ad assicurare la destinazione degli organi e tessuti prelevati secondo criteri di “trasparenza“ e di “pari opportunità” (art. 1, comma 2, l. 91/99 cit.). Queste parole bastano a escludere dai criteri allocativi astrattamente ipotizzabili - e talvolta proposti nel dibattito etico - politico - quelli di sicura incompatibilità con i nostri principi costituzionali, quali la cittadinanza, le relazioni sociali e/o familiari, il numero di persone in situazione di aspettativa rispetto alla sopravvivenza dell’aspirante, la qualità dell’attesa di vita a prescindere dalla malattia che il trapianto dovrebbe curare, la reciprocità (a Singapore, ad esempio, chi ha espresso disponibilità a donare i propri organi è preferito nel riceverne).
Tuttavia anche dopo l’esclusione dei criteri allocativi manifestamente incompatibili con i parametri normativi delle pari opportunità e della trasparenza rimane la dura necessità di discriminare i possibili beneficiari di risorse che comunque non bastano a soddisfare tutto il fabbisogno.
I criteri discriminatori si desumono dal testo degli artt. 7 e 8 co. 6 lett. c), d), f) della legge trapianti, nella parte in cui assegnano al CNT la vigilanza sulle liste d’attesa e la definizione di linee guida nazionali per l’allocazione, in base agli esclusivi parametri della compatibilità e dell’urgenza.
Ovviamente il primo criterio di priorità, dettato dalla forza dei fatti, è quello, strettamente biologico, dell’istocompatibilità.
I successivi criteri discriminatori sono costituiti dal grado d’impellenza clinica, nozione che contiene necessariamente margini di discrezionalità del personale preposto, e dalla priorità della domanda. Di qui l’esigenza che l’iscrizione nelle liste avvenga ovunque con la stessa tempestività e in modo omogeneo.
Sinora le norme citate hanno trovato attuazione, per le liste di attesa e l’allocazione di organi in condizioni standard, con riferimento ai reni (Accordo Stato-Regioni, in G. U. N. 144 del 2.6.2002) e al fegato (23.9.2004). In concreto: il CNT ha predisposto le linee guida che il ministro della Salute ha proposto, e sono state approvate con Accordi in sede di Conferenza permanente Stato-Regioni-Province autonome di Trento e Bolzano ex art. 2 d. lgs. 281/1997; quindi le regioni e le province autonome hanno recepito, con propri provvedimenti (Piano Sanitario Regionale, circolari), i contenuti dell’Accordo.
Esclusi i programmi di trapianto strutturati su base nazionale, nell’ambito delle linee guida ciascun Centro Regionale Trapianti ha fissato propri algoritmi di allocazione, ovviamente in conformità a principi comuni, condivisi, scientificamente validi, trasparenti e documentabili (art. 4.2 delle Linee guida per il trapianto renale, cit.). Si tratta di programmi informatizzati contenenti le informazioni cliniche di tutti i pazienti in lista d’attesa (regionale o interregionale) nei quali sono immessi i dati del donatore (immunologici, di peso, età, gruppo sanguigno ecc.), che forniscono l’elenco dei potenziali riceventi, da quello più a quello meno compatibile. Di fatto, il rispetto dei principi non può impedire alcune differenze nell’assegnazione degli organi.
Le norme, primarie e secondarie, citate esprimono scelte allocative apparentemente tecniche (gravità del ricevente, anzianità in lista di attesa), ma dettate da precise scelte etiche. Nella prospettiva dei quattro principi della bioetica classica (beneficio, non maleficio, giustizia e autonomia), assegnano priorità ai principi di beneficialità e giustizia, orientati verso il singolo paziente, e da bilanciare caso per caso. E l’indicazione di assegnare a ciascuno secondo il bisogno è in linea con i principi costituzionali del diritto individuale alla salute e di uguaglianza sostanziale. In effetti, in una prospettiva personalista focalizzata sulla persona come valore assoluto, il guadagno di vita è maggiore quanto più compromesse sono le condizioni di base dell’aspirante al trapianto, e i pazienti di più risalente iscrizione in lista sono quelli che la malattia ha privato di più vita.
Nella stessa prospettiva etica, si comprende la scelta “politica” di liste di attesa nazionali per i soggetti più fragili (urgenze - ossia pazienti che rischiano a breve una prognosi infausta -, pazienti di difficile trapiantabilità, pazienti pediatrici). Infatti l’allocazione nazionale aumenta il pool dei possibili donatori.
Certamente, nella prospettiva utilitarista, che mira a massimizzare i benefici sul piano sociale, si tratterebbe di pazienti incompatibili con il profilo del “candidato ideale”. Infatti una giustizia “societaria”, orientata alla salute pubblica nella prospettiva della risorsa (in questo caso dell’organo disponibile e del costo del programma di trattamento), vorrebbe che mezzi limitati fossero impiegati al fine di sottrarre più anni di dialisi alla società, e/o che si riducesse il numero degli organi “sprecati”, ancora funzionanti al momento del decesso dei riceventi: il meglio (di qualità degli organi e delle cure) dovrebbe andare ai migliori (riferito alle migliori condizioni cliniche dei candidati al trapianto).
A questo punto è possibile tornare all’interrogativo anticipato all’inizio di questo capitolo per proporre alcune osservazioni.
E’ inevitabile partire dal fatto che alcune regioni non offrono risposte efficienti ai bisogni dei propri pazienti non solo per l’insufficiente reperimento di organi, ma anche per le insoddisfacenti garanzie di qualità delle allocazioni e dei trapianti. Per questo molti residenti preferiscono iscriversi in lista d’attesa in regioni diverse, e presso Centri Trapianto di eccellenza, a costo di attendere più a lungo. Di conseguenza – a parità di bisogno - i riceventi residenti nella regione di elezione vedono allungarsi anche i propri tempi di attesa. Inoltre solo i riceventi residenti pagano, con i tributi regionali, l’efficienza del “proprio” sistema sanitario: nel comitato di Seattle tanto bastò per non ammettere al trattamento di emodialisi i non residenti nello Stato di Washington.
L’avvio di programmi di trapianto nazionali, come quelli pediatrici o delle urgenze, risponde all’esigenza di aumentare le chances dei pazienti più bisognosi di ricevere un organo.
A mio parere sarebbe auspicabile l’adozione di liste uniche nazionali – anziché regionali – delle persone in attesa un organo, differenziate solo per tipologia di trapianto, e formate in conformità a protocolli medici uniformi sul territorio nazionale.
Le liste di attesa nazionali sarebbero un bene in sé, perché incoraggerebbero la terzietà di chi valuta e inserisce in lista i dati (clinici, immunologici e soprattutto di urgenza del trapianto richiesto) e offrirebbero una migliore garanzia di trasparenza, allontanando anche solo il sospetto di forzature dei dati ad personam.
Inoltre l’allocazione nazionale amplierebbe il numero dei possibili donatori compatibili. Anche la competizione fra i pazienti in lista di attesa sarebbe più trasparente.
E’ chiaro che ciò non incoraggerebbe le regioni meno virtuose a colmare il gap né nel procurement di organi né nelle strutture per i trapianti e più in generale nella qualità del servizio sanitario. Tuttavia non si può far carico di questi problemi all’individuo ammalato.
3. Tre casi-studio
3.1 La prospettiva del paziente che non vuole ricevere trasfusioni di sangue
Vi sono pazienti i quali, informati della possibilità che si renda necessaria una trasfusione di sangue durante l'operazione di trapianto, rifiutano di riceverla. Anche la prospettazione di buone possibilità di riuscita dell'intervento in alternativa ad una morte certa non modifica la decisione: il paziente, capace, informato e assistito anche psicologicamente, persiste nel proprio intransigente rifiuto di trasfusione anche in caso di urgenza.
Ci si chiede se sia possibile o addirittura doveroso intervenire comunque, facendo almeno un tentativo di salvarlo.
A mio avviso la risposta è negativa. I principi di riferimento - diritto all’autodeterminazione del paziente e autonomia professionale dei sanitari – vanno declinati anche nella prospettiva del serio rischio di “perdere” un organo donato, qualora l’intervento non raggiungesse l’esito sperato per le conseguenze (letali) della decisione del paziente di non sottoporsi alla trasfusione di sangue, anche se indispensabile.
E’ noto che, escluso il caso di necessità, sarebbe illecito procedere a trasfusione in contrasto con la vincolante e attuale decisione del paziente, il quale ha il diritto di autodeterminarsi secondo le proprie convinzioni e le proprie idee sul perché la sua vita abbia valore e dove risieda quel valore (Dworkin). Gli ormai riconosciuti diritti del paziente all'autodeterminazione terapeutica e alla stessa integrità personale (artt. 13 e 32 cpv. Cost.), infatti, costituiscono il presupposto di liceità dell’attività medica (fra tante, Cass. pen. IV, 19.1-18.5.2006, n. 16995 Luzzi, sulla legittimità di cure trasfusionali salvifiche ad un testimone di Geova in quanto non si era potuta verificare l’attualità del suo rifiuto; S.U. Pen. 18.12.2008 n. 2437, Giulini e altro, sull’irrilevanza ex artt. 610 e 582 c.p. di un intervento chirurgico diverso da quello consentito, compiuto senza che la variazione fosse stata prima espressamente assentita dal paziente, conclusosi con esito fausto; Cass. pen. IV, 26.5 - 23.9.2010 n. 34521, Huscher e altri, sull’incompatibilità tra il delitto preterintenzionale e la finalità curativa del medico che sottopone il paziente a un trattamento non consentito, anche se effettuato in violazione delle leges artis e con esito infausto). Anche il Codice Deontologico medico (18.5.2014, invariato sul punto rispetto a quello del 16.12.2006) all’art. 35 conferma che il "medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l'acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente", aggiungendo che "in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona".
D’altro canto sarebbe inaccettabile che le modalità di esecuzione del trapianto fossero condizionate da restrizioni delle scelte operative rientranti esclusivamente nelle competenze dell’equipe medica. In sostanza, mentre è possibile chiedere ai sanitari un impegno di evitare trasfusioni non necessarie, qualora l’indicazione del paziente non lasciasse margine di scelta, l’equipe medica dovrebbe legittimamente pervenire alla decisione di non procedere al trapianto, perché l'eventualità del ricorso alla trasfusione di sangue, a tutela della vita del paziente, è certamente elevata. Gli organi sono un bene raro e prezioso e vanno impiegati con appropriate garanzie di successo: iniziare l'intervento di trapianto senza poter poi muoversi in base alla necessità determinerebbe un inaccettabile rischio di esito infausto connesso alla mancata trasfusione. E ciò implicherebbe una palese ingiustizia a danno di altri pazienti con le stesse esigenze terapeutiche. Il paziente intransigente dovrebbe essere, pertanto, rispettato nelle sue decisioni e indirizzato alle terapie palliative.
3.2 La prospettiva del clinico: rianimare o no a fini non terapeutici?
Possono verificarsi casi di accesso in rianimazione di pazienti dopo insulti cerebrali molto gravi, senza possibilità di remissione. In presenza del consenso alla donazione e di una prevedibile idoneità degli organi, la scelta di rianimarli per procedere poi – subentrata la morte cerebrale – all’espianto degli organi appare legittima ed eticamente accettabile. In questo modo, infatti, è rispettata la dignità del paziente e, poi, del cadavere appartenuto a una persona che, in vita, ha attribuito un significato particolare alla propria morte quale occasione di un gesto altruistico; è rispettato il principio di autonomia, perché il trattamento è mirato al rispetto della decisione di donare i propri organi in caso di morte; è rispettato il principio di non maleficità (primum non nocere), perché nessun danno è arrecato intenzionalmente al paziente. Il confronto costi - benefici si conclude a favore della proporzionalità del trattamento.
Ben più problematici dal punto di vista morale, benché rari, sono i casi di donne incinte in stato di morte cerebrale, per le quali ci si chiede se sia lecito o addirittura doveroso mantenerle collegate a macchine vicarianti per permettere ai feti di raggiungere uno stadio di sviluppo che consenta la loro sopravvivenza fuori dal corpo materno.
Due casi che hanno suscitato un enorme clamore mediatico sono quelli della ventottenne statunitense Trisha Marshall (agosto 1993) e della diciottenne tedesca Marion Ploch (ottobre 1992). Nel primo caso la donna, alla 17^ settimana di gravidanza, ferita gravemente mentre tentava una rapina e di seguito in stato di morte cerebrale, fu tenuta attaccata alle macchine che mantenevano le sue funzioni respiratorie e cardiache per 105 giorni, finché un bambino fu fatto nascere per parto cesareo. Nel secondo caso, invece, una ragazza di 18 anni, in stato di morte cerebrale a seguito di un incidente automobilistico, fu mantenuta attaccata alle macchine perché si scoprì che era incinta di 13 settimane. Dopo circa quaranta giorni la gravidanza si interruppe spontaneamente. I due casi non differiscono solo per l'esito, ma anche perché nel primo caso i familiari, compreso il compagno della donna, erano a conoscenza del suo stato, mentre nel secondo i genitori della Ploch non sapevano della gravidanza, né seppero individuare il padre del feto, che, di fatto, mai si presentò, nonostante l’ampia eco del fatto sui mezzi di comunicazione di massa. E, soprattutto, mentre nel primo caso i familiari chiesero di fare il possibile per salvare il bambino, nel secondo furono i medici a sostenere la necessità di mandare avanti la gravidanza, anche contro il parere dei genitori.
Anche in simili situazioni, il problema non è tanto la tecnica in sé, ma le ragioni che sostengono la scelta di metterla in atto.
Anzitutto va precisato che non è in questione un’interruzione volontaria della gravidanza, la quale presuppone l'esistenza in vita, prima ancora che una richiesta personale della donna.
Dal punto di vista del nascituro, che “persona” autonomamente tutelabile (ad esempio, da un Amministratore di Sostegno) non è, occorre riflettere sui rischi connessi alla forte possibilità di un aborto spontaneo o di un parto prematuro e all'incertezza degli effetti sulla sua salute degli interventi farmacologici necessari a sostenere le funzioni vitali della donna. Inoltre merita considerazione il fatto che il bambino nascerebbe al termine di una gravidanza vissuta all'interno di una sorta d’incubatrice dalle sembianze umane, ma senza una madre.
Dal punto di vista della donna, il rispetto dovuto alla sua autodeterminazione non consente di presumere che la stessa, sapendo o prevedendo di potersi trovare in una situazione simile, avrebbe chiesto che la propria gravidanza progredisse anche a costo di un’invasione del proprio cadavere. Anche una donna che ha desiderato la gravidanza potrebbe preferire non portarla avanti in una situazione così mutata, ad esempio perché non potrebbe più pensarsi come la madre del nascituro, o perché non vorrebbe far correre al feto i rischi di una gestazione di quel tipo, o ancora perché non vorrebbe lasciare quel peso a chi resta. Non si può, dunque, dare per scontata una volontà delle donne incinte di mantenimento ad ogni costo della gravidanza in atto. A mio avviso andrebbero indagate e rispettate eventuali dichiarazioni di volontà precedenti, perché il caso presenta alcune analogie con il tema delle direttive anticipate di fine vita (ma in 27 stati degli Stati Uniti le direttive anticipate, benché vincolanti per legge, non lo sono nel caso di donne incinte) ed anche con la libertà individuale di non autorizzare l'espianto dei propri organi dopo la morte. La differenza fondamentale tra il caso in questione e gli esempi proposti risiede nella soluzione del quesito se la madre abbia un dovere di beneficenza nei confronti dei figli non nati. Il che rinvia, dal punto di vista legale, alle disposizioni della legge 194/78.
Dal punto di vista del padre del nascituro, andrebbe - a mio avviso - riconosciuta la sua legittimazione etica a dare attuazione a eventuali dichiarazioni di volontà della madre delle quali fosse testimone. Nell'assenza d’indicazioni materne, credo si dovrebbero considerare le sue indicazioni, visto che sarebbe il padre a crescere il nascituro.
In conclusione, potrebbe essere dirimente per simili decisioni bilanciare le seguenti considerazioni: se in vita la donna abbia dato, o sia noto, un suo consenso a proseguire la gravidanza post mortem; se il padre concordi con l'eventuale consenso e sia disposto a prendersi cura di chi nascerà; in ogni caso, se il feto sia vicino al termine della gravidanza, o almeno abbia possibilità di vita autonoma (art. 6 lett. a) l. 194/78): una sua permanenza in utero per breve tempo (pochi giorni o poche settimane) per permettere un suo maggiore sviluppo, infatti, sarebbe compatibile anche con il principio di proporzionalità terapeutica. Ricordo che decisioni simili, in Italia, sono mediate dal parere consultivo del comitato etico istituito presso la struttura sanitaria ai sensi del Decreto del Ministero della Salute 12 maggio 2006.
Infine non va taciuta l’asimmetria che si creerebbe tra casi di gravidanza post mortem e casi di fecondazione post mortem, per effetto del divieto legale di uso a fini riproduttivi del seme di un uomo morto o di embrioni crioconservati, una volta che sia morto uno dei membri della coppia che aveva contribuito alla sua formazione (artt. 5 e 12 della legge 40/2004; Botti, Madri cattive. Una riflessione su bioetica e gravidanza, Milano, 2007.)
3 La prospettiva dell’organizzazione sanitaria: a chi destinare gli organi non ottimali?
Non vanno ignorate le implicazioni etico - deontologiche di un’organizzazione sanitaria mirata all’efficienza e al risparmio. C'è rischio, infatti, che uno sbilanciamento degli obiettivi a favore del risparmio possa condizionare la buona condotta professionale e/o l’interesse del paziente; né il rischio potrebbe dirsi sicuramente evitato dal rispetto del codice deontologico medico, poiché le decisioni di politica sanitaria in generale non dipendono dai sanitari che si prendono cura dei singoli pazienti.
Nondimeno, in un’ottica organizzativa finalizzata a massimizzare il beneficio dei pazienti, ci si chiede se possano essere offerti organi non “ottimali”, quando questi comunque rappresenterebbero una chance di vita per pazienti riceventi che non rientrano nei criteri per essere inclusi nella lista standard (ad esempio a causa dell'età o di una morbilità proibitiva secondo gli attuali criteri) o che sono già affetti, in misura meno grave, dalla stessa patologia che induce a classificare gli organi come marginali o non idonei (ad esempio, già ammalati di tumore o affetti da scompenso cardiaco in fase terminale).
I criteri d’inclusione sia nelle liste dei donatori sia nelle liste dei riceventi sono giustamente rigidi, perché si deve e si vuole assicurare ai pazienti riceventi il minor rischio possibile di contrarre malattie trasmissibili, oltre a un rapporto sicuramente positivo tra rischi e benefici attesi con il trapianto.
Tuttavia la stessa analisi costi - benefici può essere impiegata – a mio avviso - per fornire una chance ai pazienti quando il rischio di morire in lista di attesa a causa della storia naturale della malattia è superiore a quello del trapianto di un organo non standard.
Nella letteratura medica sono riportati i risultati di almeno tre esperienze di trapianti cardiaci da donatori marginali a riceventi in lista alternativa negli Stati Uniti: in tutti i casi si è verificato che, nonostante un’aumentata mortalità e morbilità rispetto ai pazienti trapiantati di lista standard, i risultati a medio termine dei trapianti di lista “alternativa” si sono dimostrati migliori della storia naturale della malattia. Il che sembra dimostrare la proporzionalità terapeutica della scelta di spingersi oltre i limiti che i criteri di eleggibilità per donatore e ricevente attualmente impongono nelle linee guida.
Perciò non vedrei ostacoli alla creazione di liste di attesa “alternative” per donatori e riceventi che altrimenti sarebbero esclusi dalla lista standard, all’ovvia condizione che siano date, ai pazienti riceventi, informazioni dettagliate su quelle caratteristiche del donatore che possono costituire un rischio aggiuntivo - aumentato o calcolato secondo le linee guida - a quello considerato ineludibile o standard.
E mi pare che anche in casi singoli, opportunamente selezionati dal punto di vista sia medico sia psicologico (per assicurare un consenso consapevole), il trapianto sarebbe lecito.
In tal modo si potrebbe aumentare il numero di trapianti effettuabili, offrendo un probabile beneficio a riceventi che altrimenti non l’avrebbero, senza sottrarre risorse ai pazienti in lista di attesa standard.
4. Problematicità ancora aperte
A venti anni dalla pubblicazione della legge sull’accertamento della morte (legge 578/93 D.M. 582/94) e a 15 anni dall’emanazione della legge n. 91/1999, l’applicazione di dette norme presenta, in alcuni casi, problematiche che meritano di essere chiarite.
La prima norma è stata produttiva di criticità perché ha culturalmente modificato una realtà preesistente, che limitava l'accertamento di morte con criterio neurologico unicamente ai potenziali donatori. La seconda lo è stata e lo è in considerazione del fatto che ci si trova ad operare con disposizioni transitorie.
D’altro canto, il tema dei trapianti da sempre solleva problemi che trascendono il ristretto campo delle categorie giuridiche per rivestire più alte questioni che attengono a profili etici, religiosi e sociali: senza trascurare, beninteso, le enormi difficoltà di ordine medico che ne costituiscono il presupposto. Di qui l’impossibilità di fornire, tramite un dettato normativo, una risposta appagante alle innumerevoli istanze che nascono dalla gestione di una risorsa a disponibilità limitata e che coinvolge princìpi non sempre conciliabili (quali, ad esempio, diritto alla salute versus “il bene personalistico della dignità della persona defunta”).
Si motivano, in tal senso, le numerose criticità della legge 91/99 che tenta di gestire, in un’unica disposizione di legge, il complesso delle problematiche inerenti il tema dei trapianti; criticità che di seguito saranno prese in considerazione.
Quando si parla di trapianti, si deve comprendere un iter socio-sanitario ampio ed articolato, in cui è possibile riconoscere tre diverse fasi che, pur essendo tra loro strettamente collegate, presentano problematiche diverse. La prima è quella relativa al reperimento del tessuto o dell’organo. La seconda consiste nella liceità del prelievo e della corretta allocazione della parte del corpo prelevato. La terza ed ultima fase è quella dell’impianto e del follow-up. In particolare, quest’ultima non è disciplinata in sé, poiché rileva come atto medico, con la conseguenza di essere assoggettata ai princìpi che governano la responsabilità professionale sanitaria.
A tal proposito, un recente lavoro in ambito medico legale (11) segnalava l’esistenza di organizzazioni internazionali che provvedono al reperimento ed al pagamento di donatori di rene viventi ed al trapianto degli organi così ricavati, spesso all’interno di strutture non ospedaliere, con enormi profitti economici. Questo fenomeno iniziò ad essere notificato a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, allora in paesi del terzo mondo. Nel 1993 si denunciava un vero e proprio mercato clandestino di reni da donatori viventi, a prezzi all’epoca oscillanti tra i 10.000 ed i 40.000 dollari. L’organizzazione californiana “Organ Watch” sosteneva che “il corpo in vendita è ormai una realtà, anzi un mercato globale alimentato dalla povertà di certe aree del mondo e dalla drammatica carenza di organi disponibili”. Si è addirittura scoperto che attraverso il sito internet www.psychicmessenger.com è possibile contattare facilmente negli USA numerosissime persone di giovane età, disposte a cedere un proprio rene su compenso economico.
4.1
Le commissioni di accertamento della morte con criterio cerebrale
Con riferimento alla legge 578/93 e relativo D.M. 11 aprile del 2008 una prima problematicità riguarda senz’altro la certezza che in ogni struttura sanitaria sia operativa, con questa modalità 365 giorni all'anno, 24 ore su 24 la commissione per l’ accertamento della morte con criterio cerebrale.
Allo stato attuale, nonostante il tempo trascorso dalla pubblicazione della 578/93, non risulta che tutte le strutture sanitarie siano organizzate per accertare la morte con criterio neurologico. Sostanzialmente ciò accade o per la mancanza in organico della commissione o per la non disponibilità in sede di uno o più specialisti (più frequentemente del neurofisiopatologo o del neurologo o del neurochirurgo esperti in elettroencefalografia) nelle ore notturne e nei giorni festivi o prefestivi. Tale carenza emerge soprattutto in quei presidi ospedalieri che, per il bacino d’utenza limitato, devono attivare la commissione in un numero molto esigui di casi all’anno. Parimenti la possibilità prevista dalla norma, secondo cui la commissione è tenuta ad operare anche in una struttura sanitaria diversa dalla propria, è opportunità poco sfruttata. E’ di tutta evidenza come questa inadempienza “organizzativa” possa incidere sul pool totale degli organi da offrire alla rete.
Un altro fattore che riduce il numero totale annuo di organi a disposizione dei malati, è il comportamento di molte rianimazioni che eludono l’obbligatorietà della legge nella parte in cui “quando il medico della struttura sanitaria ritiene che sussistano le condizioni definite dal decreto del Ministro della sanità di cui all’articolo 2, comma 2, deve darne immediata comunicazione alla direzione sanitaria”. Questo atteggiamento omissivo è, in parte, motivato da pregiudizi di tipo ideologico (non si deve dimenticare che molti sanitari nonostante la loro “preparazione” avvertano, ancora oggi, dubbi sulla morte con criterio neurologico) in parte a “non consapevolezza culturale” che oggi, grazie ad una migliore organizzazionee più sofisticate tecnologie, è possibile utilizzare donatori di età avanzata (in Veneto nel 2013 il 18.6% dei donatori avena una età compresa fra i 61 e i 70 anni ed il 35.6% aveva una età superiore ai 70 anni.)
Si è rilevato che pressoché tutte queste strutture, per ovviare a quest'ultima circostanza, posticipano l’accertamento della morte con criterio cerebrale ad orari più "canonici". Ne consegue che se dal punto di vista formale la legge 578/93 è applicata, nella sostanza è relativamente alto il rischio di perdere il potenziale donatore per intercorso arresto di circolo.
Questa procedura autonoma “di ripiego” contrasta chiaramente con il principio di obbligatorietà e di tempestività, intrinseco alla legge in oggetto .
Problemi durante l’indagine di flusso ematico cerebrale
Altro punto critico dell’attuale legislazione, in tema di accertamento della morte con criterio cerebrale, riguarda l’indagine volta ad accertare la presenza di flusso ematico cerebrale.
Benché la legge risulti essere esaustiva, è accaduto non raramente che i medici rianimatori convocassero la commissione prima di aver espletato i dovuti accertamenti, con il rischio di creare pericolosi equivoci, specie se alle famiglie dei pazienti era già stata comunicata la morte del congiunto, o peggio, se era già stata avanzata formale richiesta di espressione di volontà sulla donazione.
Si è quindi ritenuto fondamentale che, prima di comunicare alla direzione sanitaria (ed ai familiari) l'avvenuto decesso di un soggetto, constatato con criterio neurologico, il medico della struttura completi nel modo più esauriente l'iter clinico finalizzato al raggiungimento della diagnosi di morte, integrando (ma non sostituendo), le modalità semeiologiche indicate nell'art. 2 del D.M. con altre che ritenesse più consone in relazione al caso di specie.
E' importante ribadire che non spetta alla commissione decidere sulla necessità di effettuare o meno esami finalizzati alla certezza dell'irreversibilità del danno dell'intero encefalo, ma al medico rianimatore che ha in carico il caso clinico. Alla commissione spetta il compito di validare, attraverso l’esame della documentazione sanitaria e tramite l'esecuzione di ben precise manovre semeiologiche, l’iter diagnostico intrapreso per giungere alla diagnosi di morte ed accertare il decesso del soggetto con i criteri previsti dalle vigenti disposizioni di legge.
Con particolare riferimento all'indagine di flusso ematico cerebrale, ci si è posti il problema se, una volta effettuato tale accertamento e dimostrata la sussistenza di un pur minimo flusso (o comunque in caso di dubbio referto), questa si debba ripetere, ovvero se sia necessario procrastinare l'iter clinico fino all'avvenuta normalizzazione delle condizioni che individuano l'esistenza di una morte per cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo. Anche in questo contesto non è possibile ottenere una risposta univoca dall’attuale giurisprudenza. Nell'autonomia gestionale che è propria di ogni medico curante, ove le condizioni cliniche del paziente lo consentano, appare ugualmente accettabile sia attendere il venir meno delle condizioni cliniche che avevano reso necessario l’utilizzo di neuroimaging sia ripetere l'indagine di flusso fino alla dimostrazione radiologica di un quadro vascolare compatibile con la morte dell'encefalo.
4.2
Per quanto riguarda la legge 91/99 le più significative criticità risultano essere quelle relative al capo II della legge -Dichiarazione di volontà- in ordine al prelievo di organi e di tessuti- e dei problemi che possono insorgere quando il decesso del potenziale donatore è connesso ad un reato (cadavere a disposizione dell'Autorità Giudiziaria).
Poiché non si è giunti ancora alla piena applicazione della legge 91/99, è necessario, prima di svolgere il dovuto colloquio con i familiari, accertare se il potenziale donatore abbai o meno espresso formalmente la propria determinazione sul punto. É quindi indispensabile, come primo approccio metodologico, verificare presso il sistema informativo dei trapianti (SIT) se il soggetto avesse espresso in vita la propria volontà.
Il passo successivo è richiedere ai congiunti se il loro parente avesse provveduto a manifestare il suo orientamento attraverso una dichiarazione scritta. A questo proposito, il Decreto legislativo 8 aprile 2000 ha stabilito che qualunque nota scritta che contenga nome, cognome, data di nascita, dichiarazione di volontà (positiva o negativa), numero di un documento di identità, data e firma, è considerata valida ai fini della dichiarazione ovvero è valida la registrazione della propria volontà presso la AUSL di riferimento o il medico di famiglia o la compilazione del tesserino blu inviato dal Ministero della Sanità nel maggio del 2000 o l'atto olografo o la tessera dell'AIDO o di una delle altre associazioni di volontariato. Solo dopo aver verificato che in vita il potenziale donatore non abbia formalmente già manifestato la propria volontà sulla destinazione dei suoi organi, ci si deve accertare quale fosse il pensiero del deceduto chiedendolo ai familiari, che ne diventano quindi testimoni. In mancanza di tali dichiarazioni saranno ancora i familiari, sino alla piena applicazione della legge e quindi all'entrata in vigore del silenzio-assenso informato, a dover esprimere il proprio non dissenso al prelievo.
Un particolare problema che può nascere al momento dell'informazione e della eventuale richiesta di non opposizione è la figura dell'“avente diritto”.
La norma, come è noto, identifica i familiari che possono essere gli unici interpellabili al momento dell'informazione e della decisione sulla donazione o meno. Fra queste vi è il "convivente more uxorio". La legge 91/99, con spirito particolarmente innovativo e nell'ottica di garantire il massimo rispetto della volontà del potenziale donatore, ha riconosciuto la sussistenza di pluralità nelle relazioni familiari che esistono nel nostro Paese, ovvero che alcune persone decidono di costruire un rapporto affettivo, di profonda conoscenza e di reciproca solidarietà non utilizzando (o non potendo utilizzare) l'istituto del matrimonio. Per altro, allo stato, la figura del convivente non risulta definita dal nostro ordinamento giuridico ed è quindi formalmente "inesistente". Non entrando oltre nel merito, rimane comunque il problema di fare chiarezza sul punto . Non essendo compito del sanitario stabilire l'intensità e la validità del rapporto (non coniugale) che univa il potenziale donatore con il convivente more uxorio, appare sufficiente attestare che il colloquio è avvenuto con un soggetto che, consapevole delle dichiarazioni rese, si è qualificato per "convivente" (stilando idonea autodichiarazione) avendo, caso mai, l'avvertenza di riportare sul verbale ove si documenta l'avvenuto incontro, il numero di un documento di identità della persona.
Un'altra criticità rilevata fra norma e prassi riguarda quei casi in cui non esistono “aventi diritto”, ma altri familiari/conoscenti (fratelli, compagno non convivente o coniuge separato/divorziato, medico di base, confratelli di ordini religiosi, ecc.), soggetti cioè non previsti come “aventi diritto” sul potenziale donatore, ma che la prassi vuole siano comunque interpellati. Essi, infatti, non solo possono chiarire il dato anamnestico, finalizzato alla verifica dell'idoneità clinica del donatore, ma, nello stesso tempo, possono assumere il ruolo di validi testimoni del pensiero del deceduto. In questi casi, pur essendo teoricamente possibile procedere al prelievo per la mancanza di un formale diniego, vigendo ancora le disposizioni transitorie ex art. 23 , per ragioni di opportunità (che devono però essere, di volta in volta, attentamente vagliate), si suggerisce di rispettare il volere espresso anche dal “non avente diritto”.
Sempre per quanto riguarda le tematiche inerenti le figure a cui esplicitare la formale richiesta di donazione, anche l'avverbio “oppure”, utilizzato dalla legge merita una riflessione. Quale è il significato di tale termine, ovvero, dato il consenso di un avente diritto, è possibile soprassedere sul dissenso di altri aventi diritto, benché presenti e richiamati nella legge successivamente al primo? La prassi, nel rispetto del principio del “primum non nocere” che da sempre rappresenta un assioma della pratica clinica, suggerirebbe che la donazione, ove non ci sia esplicita intenzione del donatore in vita, non deve creare “danno” e, pertanto, il dissenso di uno o più appartenenti al nucleo dovrebbe prevalere. Sul punto una siffatto comportamento potrebbe, a ragione, suscitare non pochi dubbi e perplessità.
Per altro è il caso, ad esempio, di una moglie (madre di una bambina di 3 anni) convivente coi suoceri, interpellata al momento della morte del coniuge. Si è raccolto il consenso della moglie ma anche il contemporaneo dissenso dei genitori del marito. In questo caso, considerato potenzialmente patogeno il dissidio di volontà fra gli aventi diritto, con ovvie ripercussioni anche durevoli sul clima familiare e sulla minore, si è optato per il non prelievo.
Dovendo interpellare gli “aventi diritto”, si possono inoltre verificare delle situazioni che non vengono specificate dalle normative in vigore e che sono state risolte con la logica nel contesto di una ventennale prassi clinico-relazionale.
• E’ il caso di “aventi diritto” con difficoltà di comunicazione-comprensione della lingua italiana. In tal caso si può ricorrere al mediatore culturale “neutro”, che può essere reperito tra quelli di cui la struttura sanitaria eventualmente già si serve o tra quelli operanti presso il Tribunale competente per il territorio.
• Nel caso di “aventi diritto” di cui è certa l'esistenza, ma non presenti in Terapia Intensiva al momento del colloquio (di frequente evenienza quando il potenziale donatore è un cittadino straniero), è indispensabile ricercare la collaborazione delle forze di polizia o delle ambasciate o dei consolati per stabilire l'eventuale contatto. Se si riesce a comunicare, è ammesso accogliere l’opposizione od il consenso al prelievo per via telefonica, con annotazione in cartella clinica da parte del medico -che è incaricato di pubblico servizio- in attesa di una formalizzazione (anche via fax) della volontà espressa dall'avente diritto. L'uso del fax per trasmettere o ricevere il dissenso/consenso scritto è lecito. Se, nonostante tutti i tentativi, si certificherà l’impossibilità di entrare in contatto con i familiari in tempo utile per la donazione, si procederà al prelievo. Infatti, vigendo l'articolo 23 della legge 91/99 che consente di procedere al prelievo di organi e tessuti (ad eccezione della cornea che prevede l’assenso ex articolo 1 della legge 301/1993), nei casi in cui il soggetto non abbia esplicitamente negato in vita il proprio assenso e non sia intervenuta opposizione da parte dei familiari aventi diritto, il prelievo di organi risulta atto del tutto legittimo.
• Se il potenziale donatore è cittadino straniero, questo soggiace, comunque, alla normativa italiana; se il potenziale donatore non è identificato, trovandosi nell'impossibilità di interrogare il SIT oltre che di tentare di avvertire i familiari (presupposti indispensabili previsti dalla legge 91/99), non è possibile effettuare alcun prelievo.
• Per ultimo, è bene ricordare che: nell'impossibilità di comunicare all’avente diritto l’avvenuto decesso del congiunto e/o richiedere l'espressione di volontà perché affetto da severe patologie che ne minano la comprensione (ad esempio demenza senile) o che impongano un iter comunicativo molto lungo e particolarmente "soft" (familiare gravemente cardiopatico), si valuta il caso specifico, tramite l’assunzione dei dati inerenti lo stato di salute dell'interessato, attraverso i congiunti presenti in Terapia Intensiva, sentito anche il parere del medico di famiglia. Se al termine delle opportune valutazioni si ritiene sconsigliabile interpellare direttamente l’avente diritto, potrebbe essere sufficiente avere la garanzia, da altri famigliari, che l’avente diritto verrà da questi successivamente e con le dovute “cautele” informato dell’avvenuta donazione.
Rimangono da commentare i casi in cui il donatore è già “salma a disposizione dell'Autorità Giudiziaria” o, comunque, quei casi in cui si ravvisi la responsabilità di terzi nel decesso. Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto (morte connessa a reato) è bene ricordare che vi è obbligo da parte del sanitario di denuncia all'Autorità Giudiziaria potrebbe configurarsi il reato di omissione di referto , non solo nei casi in cui si abbia la certezza della perseguibilità d'ufficio del reato, ma anche in quei casi in cui vi sia il semplice sospetto.
Nella pratica, trovandosi ad agire su soggetti con lesioni cerebrali, solitamente non è difficile stabilire, sulla base dei dati circostanziali, se esistono o meno elementi che rendono il delitto perseguibile d'ufficio (si pensi alla morte conseguente ad incidente stradale o ad infortunio sul lavoro o ad omicidio volontario); d'altra parte, alcune volte il nesso causale fra azione antigiuridica e decesso non è così evidente: esempi emblematici possono essere la morte come conseguenza di un suicidio (l'istigazione al suicidio riveste i caratteri di reato perseguibile d'ufficio) e la morte come conseguenza di una ipotesi di responsabilità professionale medica. In questi casi, e più in generale in quelli dubbi, è opportuno richiedere una consulenza medico legale in loco o attivare la second opinion per condividere la decisione.
Oltrepassando le problematiche riguardanti gli obblighi di denuncia, è accaduto che, nei casi in cui i prelievi necessitassero di nulla osta da parte dell'Autorità Giudiziaria, questa abbia negato l'autorizzazione o sia stata “titubante” nel concederla. Come è noto la previgente legge (n. 644/75) prevedeva, all'art. 12, direttive nel caso fosse sorto sospetto di reato nella morte della persona di cui si intendeva utilizzare il corpo per prelievi a scopo di trapianto. La legge 578/93, il relativo decreto 582/94 e la legge 91/99 nulla non richiamano sul punto. Rimane, ovviamente, facoltà del Magistrato nominare un proprio Consulente tecnico che svolga le necessarie indagini autoptiche contestualmente alle operazioni di prelievo. Spesso, però, questa possibilità non è attuabile per la mancanza di un Consulente tecnico "in pronta disponibilità" che si adatti alle necessità ed ai tempi imposti dalle eventuali operazioni di prelievo. In questo caso è utile suggerire al Magistrato, previa ovvia organizzazione in loco, la possibilità di effettuare, da parte dei sanitari, la registrazione video o fotografica dei momenti più essenziali delle fasi di prelievo, onde documentare che quest'atto chirurgico non ha in alcun modo intralciato o deviato le indagini.
E’ facile, a questo punto, rendersi conto come molte questioni non siano di immediata risoluzione. Le stesse sono state affrontate di volta in volta dall’assiduo sinergismo tra esperienza clinica e medico legale, che ha consentito di fornire risposte scientificamente utili e valide, senza contrastare con le disposizioni di legge vigenti.
Appare tuttavia importante essere giunti, con questo lavoro, a sottolineare l'impegno di quei colleghi che, consapevoli del cruciale ruolo che il medico può e deve assumere nel settore dei trapianti, si organizzano spontaneamente in gruppi di lavoro o si confrontano alla pari con altri colleghi. Gruppi e circolarità di informazioni che costituiscono l’unica possibilità di vera condivisione di esperienze critiche, che sinergicamente possono essere affrontate e distribuite in modo uniforme, su scala nazionale, a beneficio degli altri colleghi. Tali incontri costituiscono senz’altro un momento di crescita professionale e professionalizzante.
Tuttavia, i numerosi sforzi istituzionali ed organizzativi per l’incremento dei trapianti d’organo, il perfezionamento sia dell’attività di procurement e prelievo che di quella di impianto d’organi, nonché l’attualità del fenomeno trapianti, impongono comportamenti cauti, basati su decisioni condivise ed assunti solo dopo un libero ed aperto confronto.
Rimangono ancora da analizzare numerosi aspetti, giuridici ed etici, che la medicina dei trapianti prospetta le cui risposte non sembrano esser oggi certe:
è lecito, in una dimensione non lontana di valide disposizioni a tutela della vita nella fase terminale, utilizzare anche questi soggetti come possibili donatori?
In caso di morte cerebrale a cuore battente in donna gravida potenzialmente donatrice è doveroso non interrompere l’assistenza meccanica di supporto agli organi al fine di prolungare la gravidanza fino ad un epoca gestazionale (23-28 settimane) che potrebbe garantire la vitalità del nascituro?
Tenuto conto dell’aumentare dell’età media dei donatori, con quale criterio allocare l’organo “marginale”?
In una cronica realtà nella quale i tassi di donazione delle regioni del centro nord risultano più elevati rispetto ad alcune regioni del sud, è lecito garantire prioritariamente il trapianto ai cittadini delle regioni più virtuose applicando rigidi criteri legati alla residenza?
A queste ed altre questioni sarà opportuno proporre riflessioni e commenti in un altro prossimo scritto.